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Totti e De Rossi: la simbiosi romanista dei gemelli diversi

Le bandiere, una storia immensa. I due percorsi del 10 e DDR sono paralleli ma sempre connessi fra loro. Dal 1997 a oggi, tutto nel segno della Roma

Daniele De Rossi si commuove abbracciando Francesco Totti nel giorno della sua ultima partita in giallorosso, di LaPresse

Daniele De Rossi si commuove abbracciando Francesco Totti nel giorno della sua ultima partita in giallorosso, di LaPresse

31 Maggio 2019 - 09:48

Derossiani, tottiani, romanisti. Da qualsiasi lato la si guardi, una storia così immensa, che si dirama su due binari paralleli ma simbiotici, merita rispetto. Almeno una rilettura più attenta di un quarto di secolo insieme. Sempre con la Roma. Fin dal giorno in cui i piedi fatati di Totti evitano il più grande sfregio (im)possibile ai nostri danni: la cessione alla Sampdoria. È il 9 febbraio del 1997, quando nel triangolare Città di Roma con Ajax e Borussia Moencengladbach, Francesco incanta l'Olimpico, gela i sogni litmaneniani di un Carlito che non è brigante ma poco ci manca solo per averci pensato e scongiura lo scempio. Quel giorno, su quello stesso prato, gioca per la prima volta Daniele, che si esibisce con le giovanili, prologo del torneo della prima squadra.

Guardati indietro. Trova la costante, l'elemento che unisce passato e futuro regalando un presente inatteso, che leva il fiato. Il 4 ottobre del 2000, a Stagione Di Grazia appena cominciata, De Rossi viene convocato dall'Under 17 azzurra e a Coverciano "sfida" la Nazionale di Trapattoni, nella quale fra i quattro romanisti c'è anche Totti. L'uno contro l'altro per la prima volta e con colori differenti da quelli marchiati sulla pelle, perfino lontani da Trigoria. Il mondo pare capovolto e bisogna attendere un anno, anzi due, per riposizionarlo nel verso giusto.

Il 30 ottobre 2001, Daniele esordisce in prima squadra. Ma è un debutto sui generis: col tricolore sul petto, in Champions con l'Anderlecht, in un giorno di assenza di Francesco. Il 29 settembre del 2002 Totti firma la sua prima tripletta a Brescia e in panchina quel giorno fra gli altri c'è De Rossi, destinato al battesimo in campionato proprio sullo stesso campo del debutto del Dieci. Ma Baggio rimette il match in discussione e Capello si cautela con Guardiola. Il miglior allenatore del mondo già da giocatore ne capisce più di tutti e qualche mese più tardi, contro il Como, favorirà l'ingresso in campo di quel ragazzino che ha già la testa da grande.

Da lì in poi passa poco per far diventare DDR un punto fermo della squadra di cui Totti è perno irrinunciabile. L'uno conduce l'altro, che lo studia, non solo calcisticamente. Studia quella fascia, il modo giusto in cui portarla. Appena pochi giorni fa, la Leggenda giallorossa ha detto del suo successore: «Era un Capitano già da quando c'ero io». Investitura più importante non avrebbe potuto esserci. Effe e Di sono diversi che più diversi non si può. Ma sono anche uguali nell'amore che li lega a un'Idea. Per Daniele il modello è stato Francesco, che lo ha tutelato finché non ha camminato con le sue gambe. Molto presto. «Una volta era un beniamino per i miei occhi di tifoso. Poi piano piano è diventato un compagno di squadra, un riferimento nella vita, un amico».

Totti era il bambino prodigio, baciato da un talento che ne bacia così uno ogni trent'anni. Quando va bene. Uno di quelli che puoi soltanto ammirare, applaudire, di fronte al quale ti inchini. A meno che si non sia mossi dall'invidia, nel qual caso si arriva a odiarlo. E quanto astio ha dovuto sopportare, prima di essere universalmente riconosciuto. Quanto tempo sprecato. Per gli invidiosi. De Rossi era molto bravo ma appesantito da un cognome ingombrante per chi cresce nella scuola di Trigoria. Ha dovuto combattere i primi pregiudizi fin da ragazzino, i più odiosi, quelli del raccomandato. Forse già allora si è forgiata la sua tempra da combattente. Ha accettato con umiltà di indietreggiare, da attaccante a mezzala a mediano. Tutto mentre il Dieci avanzava sempre di più, fino a diventare anni dopo il terminale d'attacco più prolifico d'Europa.

Ha esordito in età da Allievi, tra i più giovani di sempre, in un'epoca mediocre, quando una classe così fulgida non poteva non guadagnare in breve il proscenio. È cresciuto mentre cominciava l'età dell'oro e ha vissuto in prima persona la Gioia più grande, arrivando al culmine con un Re Mida della tattica, che qualche anno più tardi ha accompagnato il suo finale fra mille polemiche. Daniele ha debuttato tra una pletora di fuoriclasse, già quasi ventenne, lanciato da una Mascella che si affidava solo a campioni affermati. I galloni li ha strappati con sudore e sacrificio, ma la maturità ha coinciso con la discesa in territori ostili. Uno ha avuto la nazione avversa, pagando l'identificazione automatica con la Città Eterna. L'altro ha avuto per un periodo nemmeno brevissimo la sua città contro, dovendo espiare l'avversione di diversi diffamatori di professione.

Anche se ora sembra tutto dimenticato. Francesco è stato osteggiato, poi accettato, infine acclamato. Daniele ha compiuto il percorso inverso. Salvo tornare all'affetto ecumenico quando la sua parabola è arrivata al termine. Il primo all'esterno, il secondo all'interno. Le rispettive storie con la Nazionale forse non sono casuali. Come non è casuale che si siano laureati campioni del mondo a braccetto, ma attaccati anche in quella circostanza, sia pure per differenti motivi.

Poi hanno ritrovato i rispettivi spazi, elementi fondamentali in una squadra che è semplicemente l'emblema del tifo di entrambi e di chi li ci si è identificato. Totti rappresenta il sogno da bambino, il numero 10, la fascia da capitano, i gol a raffica e i numeri da record, un cognome che fa assonanza con Tutto, il calcio che diventa divino. È pop del più alto livello, i primi U2 che incantano i pub di Dublino prima di conquistare il globo. È l'eroe dei due mondi, subito profeta in patria, poi simbolo per i bimbi di ogni angolo terrestre. Incarnazione del Sogno quando gonfia la rete il 17 giugno e vola sotto la Sud sommerso dall'abbraccio di un intero popolo. Confinato dentro il Raccordo soltanto da chi lo ha confuso con l'anello di Saturno. Allungandogli la carriera.

De Rossi è la Curva in campo, la grinta, le emozioni mai nascoste e le esultanze sfrenate, le scivolate a sradicare erba e pallone, anche gambe avversarie se necessario, le iniziali del cognome acronimo di "Daje Roma", il calcio umano, di strada, che sa di tempo antico. Perciò è punk e tradizione, i Clash che suonano rivoluzione, tatuaggi e numeri dall'1 all'11. Anche se ha indossato per una vita il 16 (che comunque esisteva anche all'epoca), in onore della figlia e un po' anche per un altro calciatore dal sapore vintage: Roy Keane da Cork. Il cielo d'Irlanda ti annega di verde, il mare di Ostia ti copre di blu, ma sopra ogni cosa ci sono sempre il giallo e il rosso. Da passato remoto a presente con la parola "futuro" cucita addosso, come promessa prima e peso poi. Segni di fango e sangue ostentati orgogliosamente. A testa alta anche quando hanno provato a piegarla. Una corsa sotto la Sud con la maglia strappata, un'altra a scavalcare il cancello dopo un derby: ultras in campo, il campo sugli spalti.

Daniele e Francesco, difesa e attacco, uomo al servizio della squadra e squadra al servizio della divinità, passione e classe, lotta e governo, elementi primordiali e opere d'arte. Ossimori che si fondono in quegli occhi blu di entrambi. In una maglia indossata dal bambino Effe e dal bambino Di e mai tolta di dosso. In F di forza e D di daje. Roma, sempre, ovunque e comunque. E in un amore sconfinato. Il loro. Il nostro. Che merita più di questo.

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