L'analisi di Torino-Roma: dall'ultima di Ranieri lo spunto per Fabregas
La squadra che ha vinto domenica con il 433 era quella di De Rossi. E se l’allenatore fosse lo spagnolo quella sarebbe una buona base di partenza

(GETTY IMAGES)
Prima i freddi numeri: Claudio Ranieri ha guidato la Roma per 193 giorni nel corso dei quali ha disputato 36 partite vincendone 22, pareggiandone 7 e perdendone 7. In particolare, nelle coppe ha ottenuto questo score: in Coppa Italia sono state solo due le gare, una vinta 4-1 con la Sampdoria e una persa 3-1 a Milano; in Europa League quattro vittorie, due pareggi e due sconfitte, l’ultima delle quali in dieci contro undici per quasi tutta la partita. Ecco, forse il più grande rammarico della stagione è aver lasciato le competizioni alternative al campionato con due sconfitte legate da un Hummels comune denominatore. In campionato, invece, il cammino è stato pressoché trionfale: dopo le due sconfitte iniziali con Napoli, Atalanta, guidando una squadra ferita e priva di forze fisiche e mentali, Ranieri ha cominciato una cavalcata vincente passata attraverso altre due sole sconfitte (a Como e a Bergamo, non si può dire che la Lombardia in questa stagione abbia portato bene alla Roma, considerando anche il ko a Milano in Coppa Italia) con un ruolino, però di vittorie, decisamente fuori dall’ordinario: 17 su 26 gare. I gol fatti sono stati in campionato 42, quelli subiti 18. Quando è arrivato la differenza reti era negativa (14 fatti, 17 subiti): in pratica in media ogni partita è finita 1,61 a 0,69, una differenza di un gol a partita.
Il cuore oltre la tattica
Detto dei numeri c’è da arrivare poi al cuore caldo della vicenda. Perché il lavoro di Ranieri non si può giudicare solo per quello che si vede in campo o nelle statistiche, ma afferisce una sfera sentimentale e morale che dovrebbe far riflettere chi pensa che il calcio sia solo una questione di interpretazione tattica. Ognuno si senta libero di proporre/amare il calcio che ritiene più affine, ma sarebbe da ciechi trascurare le lezioni lasciate da giganti come Ranieri o Ancelotti, commovente al suo saluto d’addio al pubblico madrilista, forse il più esigente del pianeta. La partita di Torino non ha aggiunto niente di nuovo alla stagione della Roma, se non perché ha dato quel timbro di un percorso che meritava un riconoscimento europeo. Si è sfiorato il quarto posto, negato solo da un improvvido intervento di Nicolussi Caviglia nel finale di una partita assai combattuta come quella tra Venezia e Juventus. Ma ancora una volta c’è anche una traccia tattica che merita un approfondimento: lo schieramento della Roma contro i granata con un 433 piuttosto sbilanciato, che nelle intenzioni del tecnico poteva ripiegare a 532 con il sacrificio magari di Soulé in copertura sulla fascia destra. Poi non ce n’è stato praticamente bisogno, perché la Roma è partita e ha trovato presto il vantaggio, sfruttando proprio la superiorità numerica sulle fasce garantita dalle mezzeali soprattutto nella catena di destra, con l’apporto da terzino di Celik, le geometrie di Cristante e l’estro offensivo di Soulé, particolarmente a suo agio in quella posizione. Qualcosa di più cauto si è visto solo dopo il vantaggio, quando Mati ha provato a collaborare con la squadra in un paio di interventi difensivi, in realtà più grattacapi che soluzioni. La conferma ulteriore che dell’argentino vanno molto apprezzate le qualità offensive, ma non è certo il più affidabile quando lo si chiama in copertura. Anche dall’altra parte sono arrivati confortanti segnali di incisività offensiva grazie soprattutto al contributo di Saelemaekers, autore dello spunto che ha cagionato il rigore del vantaggio e del gol del definitivo 2-0.
Quel 433 alla De Rossi
Curioso notare come l’ultima Roma sia stata praticamente la copia della squadra che aveva in testa De Rossi, probabilmente anche nei singoli (al netto ovviamente delle assenze forzate di Pellegrini e Dybala). È stata, insomma, la chiusura di un cerchio e il raggiungimento della qualificazione in Europa League dopo aver per 36 minuti, in due tempi diversi, accarezzato il sogno della Champions League rappresenta in maniera plastica il simbolo delle potenzialità a lungo inespresse nella prima parte di stagione della Roma costruita la scorsa estate.
Il progetto-Fabregas
Dei numeri della sfida, c’è ovviamente poco da dire: li trovate qui accanto e testimoniano la sostanziale banalità della partita. Assai più interessante è invece capire come questa squadra, senza troppe rivoluzioni, possa presentarsi ai blocchi di partenza della prossima stagione con un tecnico che per background, mentalità e anagrafe somiglia molto proprio al figlio ripudiato dai Friedkin, De Rossi. Parliamo ovviamente di Fabregas, il disvelato, probabile mister X scelto da Ranieri bloccato per il momento da quel vincolo con il Como da cui sta provando a liberarsi. Non fatichiamo a credere che lo spagnolo abbia ravvisato nella rosa della squadra giallorossa quelle potenzialità in grado di convincerlo a puntare sul cavallo giallo e rosso (magari proprio dalla partita di domenica con il 433), per dar lustro alla seconda parte della sua carriera, quella che potrebbe lanciarlo nel firmamento dei big. Amante del calcio tecnico e aggressivo, Fabregas parte dal concetto della difesa a 4 quale presupposto principale di una costruzione tattica sensibile alle influenze catalane e esportata dalla Spagna in tutto il mondo grazie all’evangelizzazione portata avanti da Guardiola nel tempo.
La rivoluzione difensiva
Resta da capire se il DNA formato in questi anni dalla Roma con la difesa a 3 proposta da tutti gli allenatori possa essere rimescolato e portato a nuova vita dall’impulso tecnico spagnolo. Siamo sicuri di sì, perché le sue idee sembrano chiarissime e la Roma se lo ha scelto non può non averle assecondate in toto, creando quindi i più validi presupposti per una collaborazione che duri nel tempo. Inutile, però, fare oggi i nomi dei giocatori che Cesc potrebbe aver chiesto (di acquistare e di confermare, la questione non cambia) anche perché è inutile sognare troppo in chiave di mercato. Lo scheletro della squadra resterà più o meno lo stesso, bisognerà solo fare in modo di sveltire ulteriormente il passo in difesa e in mezzo al campo. Se poi ci sarà qualche colpo di scena a rimescolare ulteriormente le carte, ogni discorso di programmazione andrebbe a farsi benedire. Anche perché parlare di piano A con Fabregas e piano B con Gasperini fa tornare alla mente i giorni tristi in cui qualche dirigente poco avveduto sembrava indeciso se affidare la squadra a Sacchi o a Trapattoni. Ognuno sul tema può avere le opinioni che vuole, ma negare la diversità di due pianeti tanto lontani sarebbe disonesto. E sintomatico di una scarsa competenza che non porterebbe lontano.
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