Annoni: "Roma, serve un tecnico esperto"
Parla l'ex calciatore: "Ranieri non lo conosco, per lui parla la carriera. Potevo finire alla Juve o alla Lazio, ma io ero da Roma o da Toro..."

(Instagram)
Che fa Annoni oggi? È la prima domanda che faccio ad Enrico quando lo chiamo, ci eravamo dati appuntamento per questa intervista un paio di mesi fa quando stava a Dubai. «Taglio l’erba», mi risponde scherzando, in effetti in sottofondo sento un rombo che scambio per quello di una moto. Già, le moto, la sua vera grande passione: «Mio padre aveva un’officina meccanica in un paesino, impossibile non mi entrassero nel sangue. A otto anni già guidavo le motorette, se non avessi fatto il calciatore mi sarebbe piaciuto fare il pilota, ma servivano tanti soldi». Annoni è stato alla Roma due anni e mezzo, da a giugno ’94 a febbraio ’97. Veniva dal Torino e poi è andato al Celtic, in Scozia: tre squadre dove il senso di appartenenza e il rapporto con i tifosi sono fuori dal comune.
«È la verità: magari sarei potuto andare per dire alla Juve o alla Lazio ma non sarebbe stata la stessa cosa. Invece al Toro, alla Roma e al Celtic ovviamente piacevano i campioni, però valorizzavano anche chi magari aveva altre qualità rispetto ai fenomeni. In questo devo dire che sono stato fortunato perché la Lazio l’ho mancata di pochissimo: nel ’93 dovevo seguire Luca Marchegiani, ma il Torino aveva ceduto anche Lentini ed era scoppiata la rivolta tra i tifosi. Così mi chiamò Goveani, che stava per diventare presidente al posto di Borsano e mi chiese di restare un altro anno. La stagione successiva è arrivata la Roma o meglio, un pezzo di Roma perché non si capiva chi sarebbe uscito vincente dal divorzio Sensi-Mezzaroma. Se fosse rimasto Moggi sarebbe arrivato Ferrara, invece ha vinto Sensi ed è toccato a me. Per la gente ero una seconda scelta e non stiamo parlando di un paesino, così all’inizio ho avuto un po’ di problemi. Poi piano piano, piano piano, il mister ha cominciato a capirmi e sono riuscito a farmi voler bene dai tifosi con i miei limiti, perché certo non ero un fenomeno: però ci mettevo volontà, passione e grinta».
E posteggiavi l’Harley Davidson in salotto…
«Ahahahah… Sì è vero, ero andato ad abitare sull’Appia Antica in una villetta che non aveva un garage. L’auto si poteva tenere fuori, la moto no. Quindi la mettevo in salone e ti dirò: ci stava anche bene».
E tua moglie non ti diceva niente?
«L’unica cosa su cui non mi ha mai detto niente sono le moto perché sa cosa significano per me. Sai, la vita non sempre è felice, ci sono dei giorni, dei momenti che sei un po’ così, no? Allora prendo la moto e me ne vado, faccio 70-80 chilometri per conto mio senza fermarmi e mi rilasso. Quando torno, sono sereno come prima».
Torniamo alla Roma: Mazzone passava per un difensivista.
«Non solo non era vero ma per tante cose era avanti, ci faceva fare cose che si fanno adesso. Lui usava i numeri: la difesa era uno, il centrocampo due, l’attacco tre. Quando avevi la palla gridava le indicazioni a seconda che volesse il lancio per l’attaccante, la sponda al centrocampista, la seconda punta che si buttasse dentro. Per me è stato una persona eccezionale, ma proprio eccezionale. Era tanto romanista e forse questa cosa in alcune situazioni non gli ha giovato. Dal lunedì al giovedì mattina rideva, scherzava, poi dal giovedì pomeriggio alla domenica era un’altra persona. Lui stesso ha raccontato di avere un fratello gemello, ti posso dire che io l’ho visto con i miei occhi».
Con chi hai legato di più a Roma?
«Con Amedeo Carboni capita di vederci perché vive ad Arezzo come mia figlia, con altri c’è la passione comune del Padel. Con Delvecchio, Lanna, Aldair, Totti, Candela, Di Biagio ci incontriamo spesso».
Ti chiamano ancora Tarzan?
«Meno male che oggi i pelati vano di moda… Allora, quando sono arrivato a Torino stavo perdendo i capelli e mi sono detto: questi ultimi tre, quattro anni li lascio crescere, come vengono, vengono. Oggi quando mi rivedo nelle foto penso che fossi veramente scandaloso, però sai, in quei momenti sei giovane. Così io sono diventato “Tarzan”, Pasquale Bruno “O’ animale” e Policano “Rambo”».
Difesa improponibile per la sua “cattiveria” nel calcio di oggi.
«Oggi, passami il paragone, ci sono meno uomini e più calciatori: al primo soffio cadono come se si fossero rotti tutto; invece, magari gli è stata solo messa una mano sulla spalla. Ai nostri tempi si prendevano e si davano: mi ricordo le lotte che ho fatto con Gullit in aria, andavi e sapevi che ti poteva arrivare una gomitata nei denti o sul naso. Ma poteva arrivare anche a lui e poi finiva lì. Qualcuno quando l’aria si scaldava si nascondeva, gli altri le davano e le prendevano. Quando andavi a saltare con Gigi Casiraghi o Brio eri consapevole dei rischi, ma anche Maradona metteva il piede in modo che ti schiacciava una caviglia o ti dava una tacchettata sulla tibia. Era un calcio diverso, le partite finivano sul campo».
A Torino ti sei tolto belle soddisfazioni.
«Io ci sono arrivato in un momento in cui ero senza contratto e sono subito andato a leggere la storia del grande Toro. Abbiamo fatto un quinto e un terzo posto, vinto un Coppa Italia, perso una finale Uefa con l’Ajax senza essere battuti. Con due tre innesti avremmo potuto giocare per lo scudetto; invece, Borsano è andato in crisi e ha smantellato la squadra: Lentini, Marchegiani, Cravero, Martin Vasquez, Bresciani, siamo andati via un po’ tutti. Non era un Torino di bravi ragazzi, ma di figli di buona donna, nel senso che avevamo tutti un carattere abbastanza fumantino. Mondonico era bravo a capire quando eravamo rilassati e quando c’era qualche testa calda che accendeva la fiamma; nelle partitelle di allenamento non fischiava e ci lasciava fare, non dico che ci menavamo, ma quasi e lui sapeva che la domenica saremmo stati belli carichi. Mondonico ti leggeva negli occhi appena entrava nello spogliatoio: capiva subito se uno non aveva dormito bene, se aveva litigato con la moglie, se aveva altri problemi e regolava di conseguenza l’allenamento. Poi interpretava bene le partite ed era molto preparato tatticamente».
L’idea degli scarpini, uno giallo e uno rosso, come ti è venuta?
«La prima scarpa colorata l’ho avuta a San Benedetto del Tronto, quando ero in Serie B. Lo sponsor tecnico era “La Pantofola d’oro!” che stava ad Ascoli. Prendendo spunto dal Football Americano, ho chiesto loro se potessero farmi un paio di scarpini bianchi e rossi. Quando li ho indossati per la prima volta, Gigi Cagni che era il capitano della Sambenedettese mi ha ricoperto di insulti. A me piacevano e ho continuato anche con Valsport: li ho fatti fare gialli, granata e poi a Roma giallorossi. A Glasgow ho pensato: adesso gioco con una scarpa di un colore e una di un altro e così è stato, la destra era bianca e la sinistra verde. Un mese dopo i bambini andavano a scuola con le scarpe di colore diverso l’una dall’altra, mi è sempre piaciuto essere un po’ fuori dagli schemi, nel senso buono».
Di questa cosa si parla ancora oggi, come dello striscione con l’aereo sullo stadio.
«Era il minimo per come sono stato trattato dai tifosi della Roma. Sono dovuto andare via perché l’allenatore (Carlos Bianchi, ndr) non mi voleva ma non puoi capire quanto mi è dispiaciuto. Ero in scadenza e avrei rinnovato di corsa ma mi è stato detto di trovarmi una squadra. A febbraio è arrivata la proposta del Celtic, sono andato a Glasgow per capire se mi sarei ambientato ed è andato tutto bene. Siccome non avevo avuto modo di salutare e ringraziare i tifosi per quello che mi avevano trasmesso, ho chiesto a un amico e a mia moglie di affittare uno di quegli aerei che passavano sullo stadio con striscioni pubblicitari e farlo volare con la scritta “Tarzan saluta i tifosi della Roma”, raccomandandomi che non accadesse durante la partita per non dare fastidio ai giocatori. Pensa che non ho mai avuto una foto originale di quell’aereo, l’ho rimediata sui social. È un bel ricordo».
E a Glasgow come andò?
«È stata un’esperienza incredibile in una mentalità totalmente diversa, arrivavi allo stadio a mezzogiorno, mangiavi nel ristorante interno quello che volevi: pasta, fagioli con l’uovo all’occhio di bue, coca-cola; poi alle 15 si giocava. Io che prendevo solo prosciutto crudo e una fetta di crostata, ero quello strano. Ora le cose sono cambiate, ma già quando ci allenava Wim Jansen che aveva giocato con Cruyff nella nazionale olandese, erano state messe delle regole; non troppe perché sennò avrebbe perso i giocatori che erano quasi tutti scozzesi e abbiamo vinto un Campionato e una Coppa di Lega. Secondo me i giocatori britannici, anche i campioni come Ian Rush, in Italia facevano fatica perché in una settimana gli toglievano le abitudini di una vita. Ci vuole sempre una misura in ogni cosa».
Finisci col Celtic e ti alleni con la Roma. È vero che Capello ti voleva tesserare?
«Allora, finita col Celtic stavo bene, non avevo mai avuto infortuni gravi, operazioni e avevo ancora tanta voglia di giocare. Siccome abitavo a Roma, chiesi a Maldera di allenarmi con la sua Primavera poi ogni tanto il giovedì Capello mi chiamava per fare la partitella con la prima squadra. Ovviamente stavo attento a non fare entrate inutili per fami notare, Capello che in difesa preferiva giocatori esperti, quando Zago ebbe problemi ad un occhio mi disse “vieni ad allenarti con noi”. Quando la squadra era fuori per le partite, lavoravo con Pincolini, sabati e domeniche comprese: mi sono fatto un “mazzo” così, volevano vedere quanta voglia avessi veramente di rientrare, quanto fossi tosto e io non dicevo mai basta. Così arrivò il giorno in cui Capello mi disse: “Vai da Lucchesi e firma, non ti prometto nulla potresti anche andare sempre in tribuna”. Non aspettavo altro, risposi che andava benissimo e che avrei firmato in bianco, quale che fosse stato lo stipendio. Quando sono andati a depositarlo in Lega è venuto fuori che i termini erano scaduti, che avrei dovuto rescindere prima col Celtic, insomma sono rimasto a piedi ed è subentrato un periodo bruttissimo: per altri due anni mi sono allenato per conto mio, volevo fami trovare pronto, ma non mi ha chiamato nessuno. Mia moglie Paola mi guardava e mi diceva “Te sei matto” e alla fine mi sono arreso ma è stata durissima. Mi hanno aiutato mia moglie e mia figlia e le moto e ritorniamo al concetto di libertà che svuota la mente».
Hai giocato con tantissimi campioni e grandi giocatori, me ne metti in fila qualcuno?
«Allora, Francesco Totti è stato il più grande, quando ero a Roma era ancora un ragazzo ma era già fortissimo. Poi posso citare Walter Casagrande che aveva problemi ad un ginocchio ma aveva delle doti pazzesche e fisicamente era una belva. Francescoli era bravo ma un gradino sotto, secondo me era più o meno al livello di Aguilera. Quello che invece secondo me avrebbe potuto fare una carriera eccezionale era Lentini, senza l’incidente stradale sarebbe diventato uno dei più forti nel suo ruolo: gli davi palla nella nostra area, te la portava fino a quella avversaria e metteva il cross perfetto. Era veramente una forza della natura, purtroppo è andata come è andata».
A San Benedetto hai conosciuto Borgonovo: hai mai avuto paura della SLA?
«Stefano è stato il mio grande amico, il mio testimone di nozze, eravamo sempre insieme. Quando ha cominciato a stare male andavo spesso a casa sua; perciò, è un argomento abbastanza delicato per me. Sì, ho avuto paura e forse ne ho ancora adesso perché non sai se può arrivare a te o ad un altro, ultimamente ci sono anche questi problemi al pancreas. Una volta prendevi le vitamine…cioè loro ti dicevano che erano vitamine e quando sei giovane ti fidi di quello che dice un medico. Poi è possibile che certe cose siano successe per fatalità o perché nella tua vita privata hai fatto cose sbagliate, non è detto che il calcio abbia delle responsabilità. In ogni caso bisogna conviverci».
Della Roma di oggi che mi dici?
«Ho giocato contro Ranieri, ma non lo conosco né personalmente, né come allenatore. Tutti mi dicono che è una brava persona e se i calciatori che l’hanno avuto gli vogliono così bene, un motivo ci sarà. Se un allenatore è bravo, si fa rispettare e stimare, la squadra è disposta a buttarsi nel fuoco per lui. Detto questo non si vince il campionato in Inghilterra con una squadra sconosciuta perché si è una brava persona: bisogna avere doti, conoscenza e valori. Purtroppo, ha deciso di smettere, al suo posto per me la Roma dovrebbe prendere un allenatore esperto, che non si faccia condizionare dall’ambiente che ti dà molto e ti chiede molto. Per allenare la Roma servono carisma e personalità».
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