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Rudi Voeller: "Con lo stadio la Roma diventa un top club. La Sud è troppo lontana dal campo"

La prima parte dell'intervista all'ex centravanti su Il Romanista: "Dagli spalti dell’Olimpico non si vede niente, pensate ai romanisti in un impianto per calcio"

Gabriele Fasan, Dario Moio, Stefano Pettoni
26 Marzo 2019 - 12:37

«Finisco la cacio e pepe e iniziamo». Comincia così, in un bar del centro dove avevamo appuntamento, la chiacchierata con Rudi Voeller, per tutti il tedesco che vola. Anche per noi. Siamo stati più tedeschi di lui, arrivando con largo anticipo: è valsa la pena attenderlo mentre finiva di pranzare con la moglie e uno dei cinque figli, Kevin.

È «sempre un piacere» per Rudi tornare a Roma, ieri ha anche modificato la sua foto profilo di Whatsapp, dove è comparso il Colosseo: «Sono qui per motivi familiari, ho approfittato della sosta del campionato», dice con un immancabile boccale di birra ghiacciata, intorno ai piatti tipici della cucina romana. Ai quali è rimasto legato, ovviamente, grazie alla moglie e alla suocera: «Ogni volta che sono a Roma mi cucina di tutto. A mia moglie piace vivere in Germania, sta a Dusseldorf da molti anni ma ogni tanto ha bisogno di tornare a Roma. Ultimamente ci passo meno tempo di quanto vorrei, domani (oggi, ndr) ritorno in Germania perché giochiamo già venerdì contro l'Hoffenheim».

Segue ancora la squadra giallorossa, certamente per ragioni di lavoro, visto che è il direttore generale del Bayer Leverkusen, ma anche di cuore. Soprattutto di cuore. «Sono informato, ma non così da vicino, ovviamente», soprattutto per rispetto non entra troppo nel merito delle vicende di attualità legate al mondo giallorosso. Ma una cosa è certa, si legge nei suoi occhi quanto sia rimasto legato alla Roma e ai romanisti, a tutta la sua vita sotto al Colosseo: «Sono stato qui per Roma-Liverpool di Champions della stagione scorsa, purtroppo la finale è stata persa all'andata...».

L'azione del gol contro il Broendby, con Rudi che "anticipa" Rizzitelli, nella semifinale di Coppa Uefa del 1991 @LaPresse

Un'occasione inaspettata, che l'ha fatto tornare con la mente ai tempi in cui era uno dei leader della Roma, prima nel vecchio Olimpico, poi al Flaminio, infine nell'Olimpico rinnovato dove lui, dopo aver alzato in estate nelle notti magiche la Coppa del Mondo con la sua nazionale, con il Foggia in Coppa Italia (poi vinta a fine stagione), il 5 settembre 1990, e quattro giorni dopo con la Fiorentina alla prima di campionato, fu il primo romanista a segnare:

«Fu un anno fantastico, la mia migliore stagione. È stato un bel periodo in quello stadio. È chiaro che lo stadio pieno è sempre bello, però quando ho visto la semifinale di Champions contro il Liverpool e quando siamo venuti a giocare qui con il Leverkusen, mi ha fatto impressione il fatto che non non si veda niente. A chi piace giocare in uno stadio così? Chi vuole vederci una partita? Mi dispiace per la Sud, Curva eccezionale, che è a un chilometro dal campo. Immagino che i tifosi della Roma diventino matti quando vanno allo Stadium di Torino, a Udine o a San Siro. All'Olimpico sei troppo lontano, da tifoso non vedi niente, da calciatore non senti appieno quel calore enorme che pure il pubblico della Roma è capace di trasmettere. E io ne so qualcosa. Da noi in Germania non esistono più stadi così, c'è solo a Berlino e anche loro stanno pensando di fare uno stadio nuovo. Poi nel calcio di oggi avere un impianto di proprietà è importantissimo. Io sono anche convinto di una cosa: se la Roma riuscirà a costruire lo stadio entro un paio di anni può diventare un top club, può entrare tra le migliori 10 squadre del mondo. E per questo sto tifando perché lo stadio si faccia».

Come va il tuo Bayer Leverkusen?
«Stiamo soffrendo come la Roma per entrare in Champions. Abbiamo una buona squadra, abbiamo giovani di grande talento, possiamo ancora arrivare in Champions ma dobbiamo lottare anche per rimanere in Europa League. Siamo sesti, ma abbiamo qualche punto in meno, proprio come la Roma. Siamo usciti dall'Europa League con il Krasnodar con due pareggi (0-0 in trasferta e 1-1 in casa, ndr). Eravamo più forti ma alla fine siamo usciti, come la Roma con il Porto».

Ti occupi ancora di mercato e la Roma ha appena cambiato direttore sportivo...
«Lo so ma io dico sempre una cosa: a Leverkusen ho fatto tutto, l'anno prossimo compio 60 anni: ho un rapporto speciale col Bayer. Non solo con il club ma anche con la ditta Bayer, un'azienda eccezionale. Non hanno solo le aspirine, ma tante altre cose. Mi trovo bene e penso di chiudere lì».

In carriera hai fatto l'allenatore ad alti livelli, da ct hai raggiunto la finale dei Mondiali. Perché alla fine hai deciso di fare il dirigente?

«Perché in fondo io non ho mai voluto essere un allenatore. Quando ho smesso di giocare volevo restare nel calcio come manager, sono diventato allenatore quasi per caso. C'era bisogno di un ct per la Germania, tutti guardavano me e dicevano "devi andarci". Io pensavo di farlo per un anno e alla fine l'ho fatto per quattro. Una cosa simile è accaduta con la Roma, c'era il problema di Prandelli. Mi hanno chiamato Baldini, Totti e Sensi. Tutti mi dicevano "devi venire, siamo in difficoltà. Devi aiutarci almeno quest'anno". Che potevo fare? Alla Roma non potevo dire di no. L'ho fatto, ma ho capito subito che era stata una decisione istintiva. Io sono una persona razionale però in quel caso scelsi col cuore».

Cosa non funzionò a Roma?
«In quella situazione ci voleva uno che conoscesse il calcio italiano più di me. Non ero preparato abbastanza».

Il tedesco con il presidente Sensi nel 2004 all'epoca della breve parentesi da allenatore giallorosso @LaPresse

Era così difficile allenare quella squadra?
«Non sono il tipo che dà la colpa alla squadra. Ero la persona sbagliata al momento sbagliato, è stata una decisione presa in pochi giorni».

Un po' come è successo a Ranieri?
«Sì, è stato così. Chiaramente con un altro orizzonte. Io ho cercato di aiutare la Roma e avevo messo in chiaro che era solo per quella stagione. Poi ho capito, con tutti i problemi che c'erano, che era meglio lasciare a qualcun altro che conosceva meglio il campionato».

Da direttore sportivo come avresti gestito la vicenda Di Francesco?
«Sono troppo lontano per giudicare. Io seguo la Roma, come tutte le squadre in cui ho giocato. Ma non sono adesso in grado di giudicare se è stato giusto o sbagliato. È una cosa che fa parte del calcio: ogni allenatore a questi livelli sa che può succedere. Non solo in Italia ma anche in Germania è così. Quando hai poco successo è per primo l'allenatore che paga. È una legge del calcio».

È giusto che Monchi abbia lasciato dopo l'esonero di Di Francesco?
«Sì, anche questo fa parte del calcio. Non solo in Italia, ma anche in Germania è cambiato qualcosa da questo punto di vista. Pochi anni fa il colpevole era sempre e solo l'allenatore, adesso anche quelli che decidono il mercato sono coinvolti. Fa parte del gioco. Magari in Germania non è esagerato come in Italia».

È più difficile fare il giocatore, l'allenatore o il dirigente?
«Io dico sempre ai miei giocatori: "mai smettere troppo presto di giocare, perché questo è il lavoro più bello del mondo". Da calciatore non si hanno responsabilità particolari. Io ho fatto tutte e tre le cose nella mia carriera. La più bella della mia vita è stata fare il calciatore. Non hai tanti pensieri, sei giovane, ti alleni. Gli ultimi anni sono un po' pesanti perché non giochi e magari ce l'hai con l'allenatore, diventi più lento. Però mai smettere troppo presto».

Il centravanti in Roma-Bologna nel "vecchio" Olimpico @LaPresse

Conosci personalmente Monchi? Della Roma attuale che ne pensi, è stato sbagliato il mercato?
«Non conosco Monchi. Ci siamo incontrati un paio di anni fa a Siviglia, ma c'è stata solo una stretta di mano. Non posso dire di conoscerlo. È sempre difficile giudicare. L'anno scorso contro il Liverpool e magari con altri 5 minuti eri in finale di Champions. La Roma ha fatto una grande Coppa e la finale l'avrebbe meritata».

Più che le cessioni, a destare qualche perplessità è stato il mercato in entrata.
«Io faccio questo mestiere e non mi metto a giudicare l'operato di Monchi o di Di Francesco. Non è giusto perché seguo la Roma da lontano e non mi posso permettere di dire quale errore è stato commesso».

Che percezione c'è della Roma all'estero? È cambiata rispetto ai tuoi tempi?
«Certo, c'è una buona considerazione. La squadra gioca un buon calcio e c'è una buona società. Certo poi Roma è sempre Roma. Quando l'Eintracht è venuto a giocare contro la Lazio, i dirigenti mi hanno chiamato per chiedermi dove potevano mangiare bene. Loro hanno un grande entusiasmo. Loro hanno uno stadio sempre pieno, ogni partita sono in 55mila».

Il gol segnato dal tedesco il 31 dicembre dell'88 contro il Napoli @LaPresse

L'Olimpico invece in media non arriva a 40 mila.
«Sono convinto che con il nuovo stadio sarà sempre pieno. Perché la gente vuole stare vicino, vuole vedere la partita, vuole stare comoda. Il calcio è così ora. Certo, ogni tanto devi anche vincere però. La Roma è da tanto che non vince, ma è difficile con questa Juve, che è un po' come da noi il Bayern Monaco. Loro hanno più soldi degli altri, ma poi bisogna dire che prendono anche le decisioni giuste. Altrimenti solo con i soldi non vinci».

[Continua...]

La seconda parte dell'intervista è in edicola su "Il Romanista"

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