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Malagò: "Vedrò il derby a Bangkok, porto nel cuore il 2-2 del selfie di Totti"

L'intervista al presidente del Coni: "Personaggi di caratura mondiale non hanno mai avuto paura a dichiarare la propria fede. L’importante è non essere faziosi"

Giovanni Malagò

Giovanni Malagò

Tonino Cagnucci e Daniele Lo Monaco
01 Marzo 2019 - 12:48

Entrare nell'ufficio presidenziale del Coni significa immergersi per un po' di tempo, sempre troppo breve, nella fantastica vita gialla e blu di Giovanni Malagò, 60 anni a marzo, ospitalissimo padrone di casa, viveur di ottime maniere, apprezzato gestore dello sport italiano, inesauribile raccontatore di aneddoti e perpetuo distributore di sorrisi, per come risponde agli amici al telefono («Cena fantastica ma ti potevi risparmiare quel blangé, non fanno per te ‘ste cose»), per la suoneria del cellulare che parte di continuo facendo scattare chissà quante volte al giorno l'inno nazionale di Mameli (come fa a non odiarlo, ormai?), per la sua capacità di cambiare timbro vocale di risposta al suo interlocutore (c'è quello formale, quello insolentito, raro, quello guascone, quello cameratesco, quello operativo), per lo spassoso menefreghismo con cui tratta i suoi collaboratori, per i richiami alle sue pazientissime segretarie, per le ripetute offerte a bere qualcosa e per l'obbligo a dargli del tu prima di cominciare l'intervista, non l'unica delle numerose affabulazioni che usa con gli estemporanei interlocutori che lo vengono ad intervistare, chiedendo ogni volta «scusa» o «permesso» per annunciare concetti che non richiederebbero l'una o l'altro, «ma per me l'educazione è tutto». Lascia che si apprezzi il mobilio («Ho arredato queste stanze a mie spese, non reggevo i mobili di prima»), dà una sistemata ai suoi tredici evidenziatori gialli e poi parte con l'intervista, senza mai rinunciare a buttare l'occhio su Sky Tg 24. E comincia, forse inevitabilmente, dall'età.
«Non c'ho più il fisico. Sto per fare 60 anni, ormai la data è vicina: il 13 marzo, come Sebino Nela, Picchio De Sisti, Bruno Conti».

Come James Pallotta.
«Anche Jim, vero».

 Romanista doc, si può dire.
«Certo, ci mancherebbe. E leggo tutte le mattine Il Romanista, nella mia mazzetta non manca mai».

Ci lusinghi, ma non saremo cattivi: il tuo rapporto con la Roma com'è?
«Ve lo dico, non è certo un mistero. Anzi. Qui si parla tanto di cultura sportiva, io ne sono un fautore. La cultura sportiva fa crescere il nostro sistema calcistico, se hai cultura rispetti l'avversario, l'arbitro, il commentatore, il giornalista, il tifoso tuo e dell'altra squadra. Io trovo penoso che chi ha cariche pubbliche o magari è diventato popolare che per non rischiare di perdere delle simpatie disconosca la sua squadra del cuore. Ovviamente questo non significa che tu non debba avere ancora più rispetto, in virtù di quella carica, verso dirigenti, tifosi, giocatori delle altre squadre. Personaggi di caratura mondiale non hanno mai avuto paura a dichiarare la propria fede, da Obama a Putin, o Conte e Salvini in Italia. L'importante è non essere faziosi o parziali, altrimenti è un disastro. Io non sono fazioso, questo mi viene riconosciuto da tutti».

 Diciamolo, forse dalle parti di Formello non te lo riconoscono tutti.
«Ma no, non è vero».

Il comunicatore seriale Diaconale ti ha attaccato il giorno dopo in cui hai auspicato la presentazione del progetto della Lazio, dicendo che loro il progetto lo hanno già presentato. Anche se non risulta a nessuno.
«Dai, non mi trascinate in queste cose. Sono cose che possono accadere, ma in realtà con loro ho ottimi rapporti, ho un dialogo costante con Claudio Lotito... Vi garantisco che è impossibile trovare una mia dichiarazione in cui io non abbia auspicato l'accoglimento del progetto dello stadio della Roma accanto a una dichiarazione in cui chiedevo di portare avanti anche l'analogo progetto della Lazio».

 Quando lo presenteranno, magari.
«Ma io faccio un discorso di politica sportiva, non faccio valutazioni su carichi urbanistici, autorizzazioni, cubature, piani di viabilità, i ponti, ecc. Io dico che non si può andare avanti così. Roma e Lazio devono avere le loro case».

E lo dici da gestore dello stadio che sarà abbandonato, quindi vale doppio.
«Certamente. Noi abbiamo due contratti importanti con le due società come affittuari e non sarà facile trovare dei sostituti con uno schioccar di dita. Ma non posso certo per un interesse di parte prescindere da quello che deve essere lo sviluppo di un sistema. Non sarebbe intellettualmente onesto. Se il nostro sistema non si mette in moto per aiutare tutte le società che ne fanno richiesta, non ci sarà alcuna possibilità di sviluppo e di competitività agli alti livelli a cui sono arrivati i principali club europei. O pensate che sia solo un caso che tutti i migliori club, nessuno escluso, vanti uno stadio di proprietà?».

Non è certo un caso. Con noi sfondi una porta aperta.
«Se penso che Manchester, con 600.000 abitanti, ha due stadi magnifici come Etihad e Old Trafford arrossisco. Ecco perché tifo affinché Roma e Lazio abbiano il loro stadio. E così tutte le altre società italiane».

Tutto giusto, non si capisce da dove derivi l'ostilità che ha impedito ancora a oggi alla Roma di poter posare la prima pietra.
«Nessuno meglio di me lo può sapere, se parliamo di ostilità. Anche noi avevamo un bel progetto per le Olimpiadi... Ma questa è una città dove è più complicato che altrove fare le cose. Per diversi motivi. E forse credo anche che francamente se adesso c'è la volontà politica dell'amministrazione di portare adesso avanti il progetto dello stadio, è stata rinforzata proprio dal no alle Olimpiadi. Non si può certo sempre dire di no. E peraltro alla candidatura non hanno neanche detto di no. Hanno invertito il sì che era già stato espresso. Perché noi eravamo già in partita. E hanno stracciato il contratto».

La lingua batte dove il dente duole. Da tifoso della Roma, ti piace almeno il progetto dello stadio americano?
«A vederlo sembra bellissimo, mi pare che tenga conto di ogni istanza».

E con Pallotta invece che rapporto intrattieni?
«Buono, in quelle rare volte che ci sentiamo. A livello istituzionale vedo e sento molto di più Lotito o altri presidenti, da De Laurentiis a Della Valle. Lui sta fuori, è più raro. Ma sento quasi tutti i giorni Mauro, ovviamente».

Baldissoni.
«Sì, soprattutto per le questioni dello stadio. Pallotta è a Boston, sarei più felice se venisse più spesso a Roma, lo dico da romanista e non da presidente del Coni, ma è una sua scelta che rispetto. Sono strategie aziendali e non c'è certo una regola fissa. In Inghilterra ci sono molti club di cui quasi non si conosce neanche il proprietario».

C'è stato anche un momento in cui qualcuno ti propose di diventare presidente della Roma.
«Più di una volta. Due volte, almeno, con proposte concrete».

Quando c'era già Pallotta?
«No, prima. Avevo dato la disponibilità anche come socio di minoranza, ma non si sono poi verificate le premesse».

Ti piacerebbe ripercorrere le orme di papà Vincenzo, storico dirigente romanista?
«Papà lo ha fatto per vent'anni, compreso un interregno da presidente al tempo di Ciarrapico. È la storia della mia famiglia».

Magari dopo il 2020, esaurito il terzo mandato se ti capiterà di ricandidarti, potresti pensarci: o presidente della Roma o sindaco di Roma...
«Vi dico come la penso: se nel febbraio 2019, qualcuno nel nostro paese riesce a fare progetti non solo a lungo termine, ma anche di breve-medio termine, secondo me è un incosciente. Ci sono talmente tante variabili che possono impattare in queste scelte che ogni discorso lascia il tempo che trova. Io sono molto strutturato e cerco sempre di tenere tutto sotto controllo. Ma sono anche molto fatalista, accetto molto il destino, altrimenti c'è il rischio di diventare pazzi. Farsi condizionare da quello che accade è da matti. Io ho sempre avuto possibilità importanti che mi hanno consentito di avere sempre nuovi stimoli. Forse sono stato fortunato, ma molte di queste opportunità me le sono andate a cercare».

Come questa di fare il presidente del Coni, forse l'opportunità più cercata di tutte.
«Prima dell'elezione ho fatto un anno e mezzo di campagna a spese mie per vincere una partita che tutti dicevano fosse impossibile. Ma ero convinto di riuscirci. E per farlo servono gli stimoli che sono sempre dettati dalla passione. Ecco perché ho rifiutato tante altre proposte. E qui invece sono un volontario».

Già, perché tu devolvi interamente il tuo stipendio da presidente in beneficenza. A quanto ammonta esattamente?
«Sono 90.000 euro annui. Devoluti interamente ad iniziative sociali e sportive».

E non ti passa mai la voglia?
«Mai. Volete sapere la mia giornata domani? Sveglia alle 5,30, aereo, Genova, macchina, 15 chilometri, inaugurazione di un campo di calcio realizzato grazie al Fondo Sport e Periferie, poi macchina, Milano, cena di lavoro con sponsor, la mattina dopo sveglia alle 5, Malpensa, aereo per Bangkok, no dico: Bangkok. E avete visto gli spazi aerei?».

In che senso?
«India e Pakistan hanno chiuso gli spazi aerei per un conflitto. Non so ancora dove mi faranno passare. Pazienza, ma sapete perché vado a Bangkok? Perché c'è l'assemblea dei comitati olimpici asiatici, e ci vado come rappresentante del Cio, per difendere la causa della candidatura Milano-Cortina di fronte ai miei colleghi del Cio, se non ci vado sembra che li snobbo. Sto 36 ore a Bangkok e torno lunedì mattina perdendomi il derby, la partita del torneo sociale con Francesco Totti, non sto con le mie figlie e con il mio nipotino, ma perché faccio tutto questo? Per senso del dovere e per la passione».

All'ora del derby dove sarai?
«Sette ore in avanti, saranno le 3 e mezza di notte di sabato, me lo vedrò nella mia stanza d'albergo a Bangkok».

Quanti derby ti sei perso in vita tua?
«È un conto che si può fare. Ho quasi 60 anni, da quando ho 6 anni li vedo, sono 54 anni, per due derby l'anno, fanno 108 partite, 120 se ci metto quelli di Coppa Italia, ne avrò persi al massimo il 10% perché magari ero all'estero o con 40 di febbre, quindi ne ho visti più di 100».

Ne hai uno nel cuore più di altri?
«L'ultimo 2-2 con la doppietta di Francesco. Incredibile quello che combinò».

E il primo?
«Non so se fosse un derby, ma mi ricordo un 3-1 con tripletta di Piedone Manfredini».

È scomparso da poco.
«Lo so, mi venne a trovare poco tempo fa. Lo premiai anche per il suo libro».

È stato uno dei tuoi idoli?
«Grande giocatore Pedro, ma ho avuto solo due punti di riferimento assoluti. Falcao e Totti».

Non lo vedresti bene Falcao alla Roma anche oggi?
«Paulo ha un'intelligenza superiore, è un uomo colto, elegante, sa di calcio. Ma in quale ruolo? Non saprei indicarlo. Certo, per una società sarebbe bellissimo avere grandi professionalità che sappiano anche incarnare la tradizione, ma sono due cose molto difficili da mettere insieme».

La sera di Barcellona la ricordi? Hai avuto una reazione istituzionale o ti sei lasciato andare?
«Lo dico con franchezza, da presidente del Coni mi sono autoimposto un aplomb che ho sempre rispettato, non metto neanche più la mia sciarpa. Poi dentro magari ribollo, ma anche questo non voglio che sia oggetto di speculazione. Fa parte del rispetto che si deve tenere».

Clicca qui per leggere l'intervista integrale di Malagò su "Il Romanista" di oggi

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