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Mondiali Story - Garrincha, la "gioia del popolo" che incantò il mondo

I medici lo dichiararono invalido per le malformazioni fisiche. Lui continuò a giocare e divenne l'ala più forte della storia, guidando il Brasile al trionfo nel 1962

15 Giugno 2018 - 18:00

C'è un detto, in Brasile, che recita più o meno così: «Ancora oggi, se chiedi a un brasiliano chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello, in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange». Non è un'esagerazione: durante i Mondiali del 1962, quando Pelé si infortuna alla seconda partita (un sofferto 0-0 contro la Cecoslovacchia), è proprio il giocoliere della fascia a caricarsi la Seleçao sulle spalle e a guidarla verso il secondo trionfo consecutivo.

E pensare che i medici, quando era ancora un ragazzino, gli avevano sconsigliato di giocare a calcio: troppo rischioso, per il piccolo Manoel Francisco dos Santos, nato con una malformazione della colonna vertebrale e un leggero strabismo. A causa della poliomielite contratta in tenera età, inoltre, Mané (come lo chiamano tutti) ha una gamba più corta dell'altra di sei centimetri, un ginocchio che butta verso l'interno e uno che butta verso l'esterno. Viene dichiarato invalido fin da bambino. Pau Grande, dove la più grande ala della storia del calcio nasce e cresce, è pieno di piccoli passerotti marroni che vengono chiamati "garrincha": lui si diverte a inseguirli e a dar loro la caccia, tanto che la sorella maggiore Rosa, date le piccole dimensioni e la grande velocità del fratellino, lo ribattezza così. Già a cinque anni, Manoel è diventato Garrincha, il nome con cui passerà alla storia.

Garrincha in azione durante una gara dei Mondiali del '62

La stella di Cile '62

Ha già brillato ai Mondiali svedesi del 1958, dando vità insieme a O' Rei alla più famosa filastrocca del pallone: Didí-Vavá-Pelé-Garrincha. Quattro anni più tardi, in Cile, l'infortunio della stella più attesa complica un po' le cose per gli uomini agli ordini del Ct Moreira. Ma nemmeno più di tanto: ci pensa lui, con il numero 7 sulle spalle e quell'andatura caracollante che disorienta i difensori avversari, a incantare i tifosi di tutto il mondo. Il quartetto offensivo lo completano Zagallo, Vavá e Amarildo, ma la stella è senza dubbio lui. Che in patria ha già conquistato tutti: gioca nel Botafogo, ma è tra i pochi calciatori a essere osannati dall'intero Paese, andando al di là di qualsiasi rivalità. Lo amano persino le torcidas del Palmeiras, del Flamengo, del Santos, del Vasco. E quando si invola sulla fascia, saltando avversari come birilli e mettendo al centro i suoi palloni al bacio, lo stadio si infiamma.

Garrincha, Didì, Pelé, Vavà e Zagallo nel 1958

In Cile tutte le gare si giocano in quattro stadi, molto vicini tra loro, perché due anni prima il più grande sisma mai registrato nella storia ha devastato il Paese. Il Brasile gioca tutte le tre gare del girone a Viña del Mar: dopo il pareggio a reti bianche con la Cecoslovacchia, la Seleçao batte 2-1 la Spagna con doppietta di Amarildo. Nei quarti di finale il tabellone li mette di fronte all'Inghilterra. Mané manda al manicomio i sudditi della Regina: segna due reti, ad aprire e a chiudere il 3-1 con cui i verdeoro avanzano alle semifinali. Nella sua zona di campo c'è Wilson a cercare di tenerlo a bada, ma in realtà Mané tiene impegnata tutta la retroguardia inglese. Lo stesso Bobby Charlton, che non è certo un difensore, è costretto a tornare per cercare di dare una mano ai suoi contro quella piccola forza della natura che si muove come un colibrì su tutto il fronte d'attacco. Segna persino un gol di testa, sugli sviluppi di un calcio d'angolo. Ma il capolavoro vero è la seconda rete: un tracciante tagliente come un rasoio e vellutato come la marmellata allo stesso tempo. La palla si infila all'incrocio dei pali, quasi non avesse altra scelta, di fronte a cotanta classe.

Contro il Cile, in semifinale, la storia non cambia: prima uno scaldabagno mancino dal limite dell'area, anche questo a togliere le ragnatele dall'angolo della porta. Quindi un altro gol di testa e un assist: il Brasile vince 4-2 e vola in finale. Dove Garrincha non segnerà, ma i calciatori della grande Cecoslovacchia che lo sfideranno il 17 giugno all'Estadio Nacional di Santiago del Cile hanno continuato a sognare a lungo la sua andatura caraccolante, il suo modo di fintare che - forse proprio a causa delle sue formazioni - rende i suoi movimenti impronosticabili. Garrincha punta e va, lascia sul posto qualsiasi avversario: non importa quanto veloce sia, Mané lo semina per strada proprio come facevano i passerottini che inseguiva da bambino a Pau Grande, quando era destinato al nulla. Garrincha invece si prende tutto, compresa la seconda Coppa Rimet consecutiva.

Garrinche e Pelé in una sfida tra Santos e Botafogo

Il declino e la morte

La passione per la cachaça, acquavite particolarmente diffusa in Brasile, uno stile di vita non proprio integerrimo e i problemi fisici fanno sì che la salute di Garrincha diventi sempre più precaria con il passare degli anni. Ai Mondiali del '66, dopo aver segnato alla Bulgaria con un calcio di punizione che sfida ogni legge fisica, la Seleçao va fuori al primo turno.

Quando Garrincha appenderà gli scarpini al chiodo, lui e Pelé avranno disputato 40 gare insieme in verdeoro, senza perdere neanche una volta. Ma mentre O Rei incanta in Messico nel 1970, Mané inizia la sua discesa negli inferi. La dipendenza dall'alcol aumenta: nemmeno la seconda moglie, la cantante Elza Soares, riesce ad aiutarlo. La più grande ala della storia sperpera tutti i suoi soldi. Nell'aprile del 1969 si mette alla guida ubriaco e si schianta contro un camion: sua suocera, a bordo dell'auto con lui, perde la vita.

Insieme all'alcolismo arriva la depressione, un tunnel che pare senza via d'uscita: con Elza si trasferisce a Torvaianica, dove giocherà anche alcune gare con le squadre locali (tra cui il Sacrofano). Ma le cose non migliorano, anzi. Tornato in Brasile, si separa della Soares e si unisce a Vanderleia Viera, ma ormai Mané corre verso una fine già scritta: nessun dribbling e nessun cross, stavolta, a salvarlo. Non ci sono più gli applausi e gli olé dei tifosi a spingerlo verso la porta avversaria. Nel gennaio del 1983, passa tre giorni di fila bevendo nei bar. Viene recuperato sulla soglia del coma etilico e internato, ma il giorno dopo - per un edema polmonare causato dalla cirrosi epatica - si spegne a 49 anni. Le sue spoglie sono sepolte a Magé, in un sepolcro modesto, con il marmo rovinato dagli anni e dall'abbandono. Inciso sulla lapide, l'epitaffio: «Qui riposa in pace colui che fu l'allegria del popolo».

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