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L'intervista - Bongiovanni, l'ex Roma che vive di scommesse

Ha smesso nel 2015. Uno scudetto Allievi, mai convocato in un anno di Primavera, l’illusione Zeman jr a Fano. E quella doccia agli abiti dell’arbitro...

17 Gennaio 2018 - 09:06

«Ho una mia attività da tre anni, una sala scommesse a Via Albano, dietro casa. E sono felice». Esordisce così Luca Bongiovanni, ex Roma, classe '93 come i tanti ex compagni arrivati in serie A, da Caprari a Politano e Ciciretti. Punto di forza dei Giovanissimi, mai convocato dalla Primavera. Dopo la Roma è andato alla Nocerina, neopromossa in B. «Avevo tante porte aperte, forse ho scelto quella sbagliata: ho fatto solo la Primavera». Poi a Fano con Karel Zeman: lo stimava, ma saltò subito. Poi i dilettanti: Palestrina, Guardia di Finanza, Colle Oppio, fino a una squalifica di 5 giornate che gli ha fatto passare definitivamente la voglia di giocare. Ma ora lavora, e non vive di rimpianti.

Luca, partiamo dall'inizio.

«Ho iniziato a sei anni, al De Rossi, una Polisportiva all'Appio-Latino. Un anno, poi la società è fallita e mi sono spostato all'Eurnova, per tre anni. La Juniores era allenata da Tonino Trebiciani (tre scudetti con la Roma Primavera negli Anni 70, subentrando a Helenio Herrera nel ‘72-73, in tempo per far esordire Agostino Di Bartolomei, ndr): mi mandò alla Romulea, insieme a tre compagni. Ci rimasi due anni, mi vide la Roma: al primo provino al Tre Fontane, c'erano 40 ragazzi. Il secondo a Trigoria contro una squadra che era venuta da Foggia, gli facemmo 20 gol. I ‘93 erano un'annata fortissima, piena di attaccanti bravi. Mi presero nel 2005, avevo 12 anni. E ritrovai un mio rivale, nei dilettanti, che arrivò quella stessa estate: ero il miglior attaccante della Romulea, ci scontravamo spesso con l'Atletico 2000, che era trascinata dai gol di Caprari. Da avversari ci stimavamo, non vedevamo l'ora di giocare insieme».

Anni belli, insomma.

«Ero titolare con i Giovanissimi Nazionali, l'anno dopo stavo con gli Allievi sotto età. Da bambino ero seconda punta, giocavo col numero 10. Nei Giovanissimi Regionali, al torneo Mileto, alla Tor Tre Teste, in una gara con l'Empoli il tecnico di allora, Massimo Lana, mi mise a fare l'ala destra. Il modo di dribblare era completamente diverso, ma giocai bene: da allora sono rimasto in quel ruolo. Eravamo fortissimi, vincevamo tutti i tornei. E spesso mi capitava di segnare il gol decisivo in finale».

Cosa è successo poi?

«Soffrivo di pubalgia. Un incubo, non si trovava una soluzione. Dopo 10 mesi di fisioterapia, mi hanno detto di andare da un dentista, ed è migliorato tutto. Sono tornato a giocare senza problemi: in genere il venerdì ero fermo, zoppicavo per il dolore. Ma è un problema che non ha soluzione: ne soffro da quando avevo 16 anni, ogni tanto ritorna».

Eravamo rimasti agli Allievi.

«Vincemmo lo scudetto. Ricordo una vittoria a Firenze, perdevamo 2-0, vincemmo 3-2, avevano lo scudetto sulle maglie, dopo aver eliminato in semifinale proprio la Roma. C'era Matos con loro. Feci un assist e procurai un'espulsione, ma poi venni espulso anche io, al 7' di recupero. Temevo che Stramaccioni mi avrebbe sgridato, mi abbracciò. Nelle finali affrontammo il Siena, c'era Spinazzola: entrai in recupero, gara quasi finita, andai subito in pressione sul portiere. Il mister deve averlo apprezzato: nella finale con la Juve in panchina c'eravamo io e Piscitella, che poi esordirà in A con Luis Enrique, ma fece entrare me. Premiato per quel pressing».

E poi?

«E poi l'anno dopo in Primavera non sono mai stato convocato. Al primo allenamento mi sono fatto male: mi si infiammava il ginocchio, ogni volta stavo un mese fermo. Ma ci rimasi male di non fare neanche una panchina, in particolare quando nel finale di stagione chiamavano i '94, dagli Allievi. Io e Viscontini facevamo sempre l'allenamento dei non convocati. Una volta però De Rossi mi fece un regalo: non mi convocò, ma mi segnalò per farmi allenare in prima squadra. Indimenticabile. C'era Montella allenatore, durante le esercitazioni una volta Totti finì clamorosamente in  fuorigioco. Montella andò a dirgli qualcosa, arrivò un pallone, Francesco senza neppure girarsi, senza guardare la porta, lo calciò all'incrocio dei pali. E Montella se ne andò, sorridendo: ‘Vabbè, ma che ti parlo a fare...'. Quel giorno dovetti interrompere l'allenamento per una botta: peccato, ero in forma, stavo giocando bene. Negli spogliatoi venne Pizarro: ‘Ma perché te ne sei andato? Ci stavi facendo vincere la partitella'».

Altri ricordi di Primavera?

«La competizione. Ricordo quando Montella portò in panchina Viviani, e lo fece scaldare. Florenzi stava andando bene, era capitano e aveva un anno in più: ci rimase male, protestò, la settimana dopo, con la Sampdoria, lo fecero esordire, al posto di Totti. Gli hanno dato il contentino. Ma quello più bravo, all'epoca, era Viviani. Tanto che lui rimase in prima squadra, con Luis Enrique, mentre Florenzi andò in B, a Crotone. Era un capoccione Viviani, ma molto forte: per me è ancora un po' sottovalutato, pure se gioca in serie A».

Ne avevi di compagni che hanno fatto strada.

«D'Alessandro, due anni più grande di me, era un mio modello: lo guardavo in allenamento, cercavo di rubargli qualche segreto, persino su come rientrava a centrocampo dopo gli scatti. Era una freccia, non lo vedevano neppure. Sini era molto bravo, ma si è impuntato sul ruolo, voleva giocare solo terzino sinistro, e si è danneggiato da solo. Ma hanno fatto strada quasi tutti. Caprari è fortissimo, e un po' sottovalutato: il suo unico difetto è che è ancora un po' emotivo, spesso inizia benissimo la stagione e poi cala un po'. Pettinari quest'anno sta facendo molto bene, ma prima non ha mantenuto le promesse: da ragazzo era veramente forte. Verre è sicuramente quello da cui mi aspettavo di più, anche se comunque sta in A: un giocatore completo, umile, ragazzo d'oro. Mi ci ero affezionato, perchè è più piccolo di me, e quando è salito con noi ‘93 l'ho preso un po' sotto la mia protezione. Ma ora devo dire che di quella Primavera non sento quasi più nessuno. Ogni tanto Falasca, un altro che poteva fare di più, ho mandato qualche messaggio a Ciciretti, Politano mi ha mandato i saluti tramite amici comuni. Un paio di volte, quando era a Roma, avevo incontrato Stramaccioni, che abita vicinissimo alla mia agenzia».

Dopo l'anno di Primavera?

«Potevo fare il secondo ma chiesi di andare via, la Roma non si oppose. Uscito da Trigoria, tranne le 5-6 grandi, puoi andare ovunque. Alla fine rimasero due neopromosse in B che dovevano allestire la Primavera, Gubbio e Nocerina, entrambe non lontano da casa. Andai a Nocera: il mio procuratore conosceva il ds, Pastore, lo aveva assistito quando giocava. A parte la prima sera mi trovavo benissimo. Ma solo Primavera, io speravo di debuttare in B».

Che successe la prima sera?

«Uscii con i compagni, quelli che vivevano con me nel pensionato, andammo a fare un giro a Salerno. Due motorini ci inseguirono, uno ci fece accostare tagliandoci la strada, qualche insulto, il gesto della pistola, uno in macchina con me rispose e ci lanciarono un casco. Ripartimmo sgommando, non sapevo la strada, arrivati in paese ci stavano ancora seguendo. L'altro che giocava con me veniva da uno dei quartieri difficili di Napoli, forse Secondigliano: la prima volta ha provato a fare da paciere, la seconda è sceso, e li ha sdraiati tutti e quattro. Dopo quella sera, tutto bene».

E dopo la Nocerina?

«Una volta capitò che non mi avrebbero portato in prima squadra, chiesi il nulla osta e a maggio andai a fare un provino al Fano, in C2. Eravamo quasi cinquanta, quattro squadre da 11: il mister voleva rifondare la squadra, che aveva preso nel finale e portato alla salvezza. E dopo un paio di settimane mi dissero che mi voleva. Era Karel Zeman, il figlio: feci il primo ritiro della mia vita, durissimo. Giocai tutte le amichevoli, alla prima di campionato, contro l'Alessandria, partii titolare. Perdemmo 6-0 in casa, e Zeman venne esonerato subito. Promossero l'allenatore della Berretti, che puntò sui vecchi: chiusi l'anno con sole 3 presenze».

E poi?

«Mi proposero Trento, chiesi due giorni prima di firmare. Arrivai lì, alle 16 era notte, la casa era sul lago, faceva un freddo indescrivibile, la squadra era in condizioni disastrose. Ci allenavamo alle 20.30, il campo in erba naturale era pieno di fango, il telefono prendeva male, e la mia ragazza si lamentava di non sentirmi mai, di vedermi troppo poco. Il giorno dopo ho fatto la valigia e sono scappato. Il presidente era una persona seria: mi chiamò, ero già sul treno, mi presi tutta la colpa e mi scusai. Sono tornato a Fano, c'era un ottimo allenatore ma io ormai ero fuori rosa».

E sei finito tra i dilettanti.

«Il mio procuratore mi mandò al Palestrina. Il presidente era Cristofari, il padre di un mio ex compagno alla Roma, l'allenatore era Pirozzi, c'era pure Amendola, altro ‘93 ex Roma. Ho accettato 2.000 euro di buonuscita dal Fano: avevo 18 mesi di contratto, ne avrei presi 25.000. Ma non pensavo ai soldi, ero giovane. Anche perché per i sei mesi successivi mi garantirono lo stesso stipendio. Pensavo di giocare, invece il mio ruolo era già occupato: feci solo panchina, poi mi infortunai. La squadra non andava, il capitano aveva accettato di rinunciare agli ultimi due mesi di stipendio, se non fossimo andati al playoff, e li centrammo. Ad agosto mi richiama Cristofari: ho accettato 300 euro al mese. Sei mesi dopo però mi hanno messo in lista di svincolo e lì ho capito che avrei chiuso col calcio».

Hai smesso subito?

«Tornai alla Romulea, mi sentivo a casa. Però dopo un mese che stavo lì un amico mi disse che una sala scommesse cercava un ragazzo. Era un periodo morto, andai: mi hanno messo subito in mano tutto, computer, sito, quote, chiavi. Stavo a San Lorenzo, avevo paura che qualcuno provasse a fare il furbo con me. Poi mi sono reso conto che tutti entravano in punta di piedi, il proprietario era una persona rispettata in zona, aveva i suoi giri. Mi piaceva, nel giro di poco ero autonomo, sapevo fare tutto. Però lavoravo tanto, in orari improponibili. A gennaio sono andato via».

E il calcio?

«Andai a giocare con la Guardia di Finanza. Il mister mi propose di fare un anno di leva e poi decidere se continuare la carriera militare o aprirmi una mia attività. Ma la divisa non mi piaceva. Ho aperto l'agenzia, con l'aiuto di mio padre, e da quel momento mi sono reso conto che quando andavo a fare l'allenamento avevo la testa da un'altra parte, ero concentrato solo sul lavoro. Non mi divertivo più, ero nervoso, e ho lasciato. Ho cercato di ricominciare, con il Colle Oppio in Prima Categoria. Ci ho messo un po' per tornare in forma. Però ho un difetto: mi innervosisco facilmente e scatto. Ho preso cinque giornate di squalifica ed è finito tutto. Anche se ora vado a veder giocare il De Rossi, e mi chiedono di ricominciare...».

Rimpianti?

«Ho solo nostalgia, un ricordo piacevole ma zero rancore. Non mi sono mai fermato a pensare a quello che poteva essere, sono contento di quello che ho. Se devo andare a cercare una colpa, la vado a cercare in casa mia, in me stesso. Sicuramente la pubalgia mi ha condizionato, ma non penso di non essere arrivato perchè mi sono fatto male. Ha peggiorato definitivamente la situazione, perchè mi ha fatto perdere agilità nei movimenti più difficili, quelli che richiedono uno sforzo maggiore, i cambi di direzione, la corsa spalla contro spalla. Cose che a quei livelli contano tantissimo. Ma è il mio carattere che non mi ha aiutato: errori ne ho fatti».

Ma che avevi fatto, per prenderti quelle 5 giornate?

«Subisco un fallaccio, l'arbitro non fischia, io bestemmio e mi ammonisce. Battono la punizione, recupero, chiudo in fallo laterale, e nel dar loro la palla calcio con forza: lo interpreta come un gesto di sfida e mi caccia. Scendo negli spogliatoi, dovevo vendicarmi. Vedo lo spogliatoio dell'arbitro aperto, prendo i vestiti e glieli butto sotto la doccia: c'era pure il telefonino. Salgo in tribuna, finisce il primo tempo, arriva il mio allenatore e mi rimprovera davanti a tutti: l'arbitro si era messo a piangere. Solo alla Roma non protestavo, lì è tutto perfetto, organizzato, non ti viene. Quando ero bambino le partite le arbitravano i genitori: sapessi quante volte mi ha buttato fuori mio padre...».

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