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il paradosso

Nzonzi, Fazio, Bianda e Coric: ma quali esuberi

No, i lavoratori della GKN, esclusi via mail. Distorsioni di un sistema che trasforma in soldi tutto ciò che tocca. Ma si può renderlo “green”?

Nzonzi e Monchi nel giorno della presentazione del francese nel 2018, di Mancini

Nzonzi e Monchi nel giorno della presentazione del francese nel 2018, di Mancini

Emilio Piervincenzi
01 Ottobre 2021 - 16:29

Dici esuberi e non pensi a Fazio o a Nzonzi o a Pastore, calciatori strapagati e ricchissimi. Pensi a un Cipputi qualsiasi, a chi fino a ieri si sbatteva per guadagnarsi il salario e che di colpo, per ragioni che a noi perlopiù sfuggono, si ritrova esubero. Cioè una persona di cui non c'è bisogno. Dici esuberi e non pensi a Bianda o Coric o Santon, ma ai lavoratori della GKN di Campi di Bisenzo, che sono diventati esuberi con una mail. Esubero, insomma, è una parola brutta assai per sua accezione, ma che diventa d'oro e in taluni casi di platino, quando è di calcio che si parla. Perché anche in questo il calcio ha del miracoloso: trasforma in denaro tutto quel che tocca.

Prendere soldi per non fare niente è brutto. Prendere soldi perché scegli di non fare niente è più brutto ancora. Il massimo del brutto si raggiunge poi quando ti viene fornita la possibilità di andare a guadagnarteli, tutti quei soldi che prendi, ma tu rifiuti e decidi di imbracciare l'arma del ricatto: io vado ma se tu mi dai una buonuscita. Per chiarezza: un giocatore che non rientra nei piani dell'allenatore viene messo sul mercato, il mercato lo vuole, ma lui si rifiuta. Oppure accetta, ma a patto di avere dei soldi dalla società di provenienza.

Prendiamo il caso di Steven Nzonzi, 32 anni, campione del mondo nel 2018 con la sua Francia (anche se gioca pochi minuti). Quel genio di Monchi lo acquista dal Siviglia (toh, la società da cui il Monchi medesimo proviene: ma che strano...) per una cifra di 26,65 milioni più 4 di bonus. Non rientra da tempo nei piani tecnici della società. E comincia a girare, in prestito, con lo stipendio di 5,7 milioni all'anno in parte pagato dalla società di Friedkin. Questa estate il Benfica piomba su di lui. Gli offre tre anni di contratto. La Roma cede gratuitamente il cartellino (pagato, lo ricordiamo, 26,65 milioni di euro più 4 milioni di bonus). E lui che fa? Dice no. No me gusta. Nao me agrada, per dirla in portoghese. Dice no al Benfica, che è una società gloriosa e storica del calcio mondiale, che fa la Champions, che mercoledì ha rifilato tre pappine al Barcellona? Ma è mai possibile? Sì, gli dice no. Nao me agrada.

Alla fine si accasa in Qatar, nelle fila del Al Rayyan, contratto di due anni a tre milioni anno. E tuttavia, prima della firma, l'impareggiabile Nzonzi che ti fa? Chiede la buonuscita alla Roma. Come dire: io vado a giocare (ci sarà in certi calciatori ancora una sia pur flebile fiammella di passione?), becco un bel biennale, ma non mi basta. Per andarmene voglio soldi da Trigoria. A me verrebbe da dire: chiedili a Monchi i soldi di buonuscita. Ma Tiago Pinto non perde la calma e tiene il punto. Basta, da noi non esce più un euro. Nzonzi si "accontenta". Addio Steven, non sentiremo la tua mancanza.

Qui non si tratta di dare la pagella a un direttore sportivo, si tratti di Monchi o di Petrachi o di Pinto. Solo chi non fa non sbaglia. Si tratta invece di leggere il fascinoso romanzo del calcio non soltanto dal punto di vista attualmente prevalente, che è quello mercantile, ma volgendo lo sguardo a ciò che dai suoi inizi quel romanzo alimenta. Che cosa muove le emozioni e le passioni che ci fanno ridere e piangere, ogni qual volta la maglia giallorossa scende in campo? Che cosa ci fa identificare ed esaltare di quel gesto, di quell'esultanza, di quella corsa sotto la Sud? Possibile che i calciatori di oggi siano solo e soltanto uomini che svolgono una professione, che hanno il guadagno come loro primario interesse, i bonus e il contratto come irrinunciabili mantra della propria vita? E, più nel profondo, che cosa resta nel loro cuore del giorno dell'esordio, del primo calcio a un pallone, dello sguardo illuminato dalla gioia di un padre in tribuna?

Oggi sono il denaro e l'obiettivo di guadagnare il più possibile a guidare le scelte dei nostri eroi domenicali. Se ti guardi indietro e pensi a Gigi Riva che sceglie di restare in Sardegna perché, semplicemente, è quella terra che ti dà la felicità, ti senti un dinosauro. E non sei in via di estinzione. Sei già estinto. E se ripensi al Capitano, che dice no a proposte da Mille e una notte che garantiscono fama, soldi, pallone d'oro, perché è Roma e la Roma che gli riempie il cuore e non ha bisogno di altro, allora un velo di non trascurabile tristezza si impadronisce delle tue emozioni. E rischi di smarrirti nel malefico gioco del business, del ricatto e dell'inganno.

Non vogliamo tornare al passato, sarebbe patetico ed è impossibile. Stiamo solo cercando un calcio sostenibile, un calcio "green", nel quale il guadagno, la passione, l'attaccamento alla maglia possano convivere. Esiste ancora un angolo di cielo azzurro per noi tifosi? Oppure tutto è solo commercio e bilanci, marketing e auto superlusso? Vorrei che quando si scrivono i contratti, che legano per un certo numero di anni l'uomo calciatore alla società calcio, si tengano presenti anche i valori che guidano lo sport. E magari si vietino le richieste di buonuscita ai futuri Nzonzi.

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