Femminile, col Barça non c’è gara e non solo sul campo
Tra soldi e blasone, il dislivello con la Roma ha radici chiare e profonde: nel dominio blaugrana incidono fattori come investimenti e diritti tv. Giallorosse virtuose a livello di “vivaio”

(GETTY IMAGES)
Investimenti, tempo e interesse commerciale: i motivi per cui il Barcellona ha battuto la Roma 4-0 al Tre Fontane nell’ultima giornata di Champions non stanno solo nelle qualità in campo. Certo, un ko del genere non può essere positivo, ma analizzando lo stato dell’arte del club blaugrana (da anni al top mondiale) e quello romanista (al vertice e trascinatore in Italia), si capisce che le catalane vengono praticamente da un altro pianeta, più ricco e sviluppato.
Il Barça oggi domina il campionato spagnolo, in Champions ha come obiettivo minimo la finale ogni anno (e la raggiunge) e schiera in campo una vera e propria superpotenza a livello continentale tra pluri palloni d’oro e talenti assoluti. Un cammino cominciato nel 2002 e sbocciato ulteriormente nel 2015 quando il club ha deciso di puntare con maggior decisione sul femminile costruendo una realtà “professionistica” sei anni prima che il vero e proprio professionismo approdasse in Spagna. Da lì sono cominciati gli ingenti investimenti per tutto quel che riguarda il femminile, dalle giocatrici alle strutture e gli staff a loro disposizione, fino al settore giovanile e un reparto commerciale in costante crescita. Riassumendo, hanno iniziato prima un processo che in Italia è cominciato (anche con l’apporto della Roma) qualche anno dopo, e l’hanno fatto con la base economica di un vero e proprio brand internazionale come è il Barcellona. La finale di Champions del 2019 persa col Lione (già al tempo un colosso a livello europeo) ha dato la chiave di volta decisiva: lì si è capito cosa serviva per dominare a certi livelli e da quelle parti non hanno più smesso di farlo e oggi a parlare oltre ai risultati in campo ci sono anche i numeri. Basti pensare che annualmente il Barça spende circa 15 milioni soltanto per gli stipendi per la prima squadra, che è almeno cinque volte rispetto alla Roma o a altri club che spendono di più nel nostro campionato (seppur con risultati peggiori). Conta molto anche il lato di merchandising e di coinvolgimento dei tifosi, oltre la possibilità di avere uno stadio di proprietà dedicato e la quasi certezza di riempirlo con migliaia di persone paganti ogni partita: nella passata stagione la sola squadra femminile ha generato oltre 20 milioni di ricavi (la Serie A intera ha un fatturato intorno ai 10 milioni) aumentando di oltre il 40% le attività commerciali (dati 2Playbook). Un percorso e un lavoro che richiedono un bacino d’utenza fondamentale insieme a dinamiche più interne al “movimento” nel Paese, come la capacità di vendere adeguatamente il prodotto calcio femminile: per la stagione 2023/24, per esempio, Deloitte ha rilevato come il Barça abbia generato 2,1 milioni di euro soltanto con diritti tv e broadcasting delle partite, nella stessa annata in Serie A ciascuna delle 10 squadre che componeva il campionato ha ricevuto dai diritti tv poco più di 50.000 euro. Soldi, tempo, marketing e visione, così il Barça è salito su un altro pianeta molto lontano da quello del calcio nostrano.
Riferimento nazionale
Visti i numeri, se si ripensa al 4-0 del Tre Fontane è più facile capire perché si possa parlare di qualcosa di non tanto grave. La Roma in particolare poi, nata quando il Barça giocava la sua prima finale di Champions, è uno dei club guida in Italia per investimenti e dedizione e nessuno ha lavorato come le romaniste sul settore giovanile (capace di produrre tantissime giocatrici che ora popolano Serie A e Serie B). I principi sono quelli della “cantera” blaugrana e sono un vanto, poi resta il fatto che tra istituzioni, diritti tv e movimento femminile in generale, tra il trascinare in Italia e competere col pianeta blaugrana la distanza è ancora molto lunga, ben più di un 4-0.
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