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l'intervista

Ulivieri: "Ma quale crisi? Il calcio italiano sta bene e vi spiego perché. Fonseca è bravo"

Il presidente degli allenatori controcorrente: "Se Juventus o Inter escono in Champions non significa niente. Mi arrabbio per come viene trattato il tecnico romanista"

Il presidente dell'Associazione Italiana Allenatori Calcio Renzo Ulivieri

Il presidente dell'Associazione Italiana Allenatori Calcio Renzo Ulivieri

25 Marzo 2021 - 12:18

Lo chiamavano Renzaccio perché ha sempre avuto la lingua lunga e a 80 anni appena compiuti non è cambiato granché. E anche da presidente degli allenatori italiani (è in carica dal 2006) non le ha mai mandate a dire. In attesa di rivedere in campo la Nazionale di Mancini, la squadra e il tecnico per cui fa il tifo, mister Ulivieri è l'interlocutore ideale per capire lo stato di salute del movimento calcistico italiano. E, non a caso, la sua opinione si discosta molto da quella della maggior parte degli osservatori italiani: «Ma quale crisi? Il calcio italiano sta benone e vi spiego perché».

Partiamo da Mancini e dal gran lavoro che sta facendo con la sua nazionale.
«Roberto rientra in questo discorso di rinnovamento del calcio italiano. Lui è entrato nell'idea che anche la Nazionale qualcosa dovesse cambiare e si è visto. Il nostro calcio è in grande evoluzione, sono cambiate le squadre, era normale che cambiasse anche la Nazionale. Anzi, Mancini in qualche modo non solo sta dietro ai tempi, ma li anticipa. Sta già avanti».

Eppure molti osservatori dicono il contrario. Chi ha un punto di vista privilegiato sa che la scuola allenatori da anni si è rinnovata, dopo aver studiato e aver capito che all'estero avevano cambiato passo. E bisognava cambiare anche in Italia. Anzi, le fa onore il fatto che pur appartenendo a un altro tipo di calcio sia stata proprio l'associazione che lei presiede a pretendere questo rinnovamento.
«Era un cambiamento inevitabile. Rischiavamo di rimanere troppo indietro. Io potrei anche parlare agli allenatori di quando avevo Kenneth Anderson centravanti e mi bastava fargli arrivare il pallone alto dalla difesa per essere pericoloso, ma non mi starebbero neanche a sentire...».

Eppure in Italia c'è ancora molta resistenza. E qualche influente opinionista raccoglie il favore dell'opinione pubblica con le sue dichiarazioni.
«A chi ti riferisci?».

Per esempio qualche giorno fa in un'intervista al Corriere dello Sport Capello ha detto che preferiva non dir nulla sui metodi della scuola allenatori. Dice che alcuni suoi ex giocatori che hanno fatto il corso gli hanno confessato che a Coverciano invitate a parlare solo quelli che vanno di moda, ma che in realtà hanno poco da dire.
«Io veramente ho invitato anche Capello, un paio di anni fa, ed è venuto. Anzi, era contento perché diceva che non era mai stato invitato prima».

Ma non la fa arrabbiare sentire queste cose?
«No. Ma è chiaro che io devo guardare a Guardiola e a Klopp, e magari a Juric, a Gasperini, a Italiano. Sono quelli che sono avanti, sono quelli che hanno cose interessanti da dire. Ripeto, anche io ogni tanto dico qualcosina, ma non certo ragionando come ragionavo allora. Il calcio va avanti. Poi hanno ragione Capello e Allegri che certi principi restano immutabili. Dicono che ci vuole la tecnica... Grazie, lo so anch'io. Solo che la tecnica non basta più da sola perché devi fare tutto a grande velocità e sotto contrasto. E questo fa la differenza».

L'accusa che fanno in molti è che così si disperde il patrimonio culturale calcistico italiano, quello del vecchia solida difesa e del contropiede.
«No no, sbagliano. Io l'ho sempre detto: noi dobbiamo "meticciare" la nostra cultura. Il contrattacco, o transizione, non dobbiamo perderlo. Ma in altri momenti dobbiamo essere spagnoli, dobbiamo essere tedeschi, dobbiamo essere inglesi. Un solo modo di pensare oggi non è più sufficiente».

Eppure dicono che il calcio italiano abbia fallito con questi nuovi insegnamenti. E lo dimostrano i pessimi risultati nelle coppe. Eppure se pensiamo all'Atalanta che spaventa così tanto il Real Madrid da costringerlo a cambiare sistema di gioco, quale può essere una prova migliore dell'indiscutibile passo avanti del calcio italiano?
«Esatto. Ma infatti chi parla di crisi non ha capito nulla. Se il fallimento del calcio italiano è il fallimento nelle coppe dell'Inter e della Juve, per me è l'ultimo dei problemi. Noi abbiamo l'Atalanta, la Roma e il Milan che hanno fatto benissimo. E c'è un altro cambiamento radicale che forse non si è colto: se la Juve perde in casa col Benevento non è un fallimento, anzi, è tanta roba. Che lo Spezia si salvi non è un fallimento. Spezia-Cagliari, per chi ha avuto modo di vederla, è stata una partita di livello internazionale. E parliamo di due squadre che devono salvarsi. Altro che fallimento. E poi, se guardiamo ai fatturati, la Juventus è la decima squadra d'Europa per fatturato. Dove sta scritto che deve vincere? Puoi arrivare ai quarti, se fai bene. Poi ci può essere sempre l'eccezione, e magari il Porto che elimina la Juve è un'eccezione. Ma non il segnale di una crisi».

Resta però l'abitudine di mettere quasi tutti gli allenatori sulla graticola, tranne quello che vince il campionato. Perdere è sempre una vergogna, qualcosa per cui qualcuno deve pagare.
«Però questo è sempre successo. L'allenatore sa che deve saper reggere certe pressioni».

Quello di Prandelli non potrebbe essere un grido d'allarme che abbia valenza per tutti?
«No, credo sia una situazione diversa. Può succedere. Ho letto la sua lettera e la mia reazione è stata di mandargli un messaggio per dire che gli voglio bene».

Non c'entra il "cattivismo", per citare l'articolo di Condò?
«Purtroppo basta che guardiamo al livello dei nostri uomini politici... è politica quella? Sparano tre slogan, quasi sempre offensivi, maleducati e cialtroni, e la gente gli va dietro. Se dobbiamo prendercela con qualcuno io inizierei da lì».

E il ruolo dei giornali? In tempi diversi sia la Gazzetta sia il Corriere dello Sport hanno fortemente criticato la costruzione dal basso del calcio di oggi... Non c'è anche un problema culturale in questo senso?
«Ma i giornalisti non possono avere la preparazione degli allenatori, non è colpa loro. Siamo noi a dover capire il ruolo dei giornalisti, dobbiamo provare noi a spiegare certi fenomeni. E quanto alla costruzione... se parli con Juric ti spiega che lui non la fa perché gli sembra di correre dei rischi inutili, almeno con la squadra che allena oggi».

A proposito di emergenti, presto sarà allenatore Daniele De Rossi, intanto se l'è preso Mancini.
«Sì, Daniele sta facendo il corso speciale Uefa B e Uefa A insieme. Mi pare promettente».

Le sembra un predestinato?
«Non lo so. Lui sa di calcio, Mancini lo ha preso anche perché è stato tanti anni in Nazionale e potrà aiutarlo. Ma poi io ho in simpatia il babbo di Daniele, Alberto. Grande uomo e grande allenatore».

La Roma le piace? È l'ultima rimasta in Europa.
«Fino a un paio di settimane fa era lì, solo adesso è uscita dalle prime quattro. La sua posizione è quella. E in Europa League ha fatto benissimo finora. Che si vuole di più?».

Nel futuro secondo lei si diffonderà sempre di più la difesa a tre? In Italia ormai è diventato un must.
«Io penso che nel futuro le difese alterneranno gli schieramenti con giocatori polivalenti».

E Allegri l'altra sera in tv su Sky l'ha seguito?
«Non ero sereno».

In che senso?
«Ero troppo arrabbiato per il trattamento che avevano riservato poco prima a Fonseca. Non mi è piaciuto come lo avevano messo all'angolo. E Fonseca è stato un signore, io al posto suo mi sarei scaldato. Così poi ho seguito un po' Allegri, ma con l'umore rovinato».

E?
«Sai, lui è simpatico. Affascina quando parla».

Non manca al calcio italiano?
«Mica solo lui. Sono tanti a star fuori. Lui, Spalletti, Sarri...».

Tutti toscani come lei.
«Boh, io son di San Miniato. Solo io sono toscano come me...».

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