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il libro

La storia va oltre

Il mondo romantico fatto di valori e d’appartenenza, quello Romanista Quello di una città ironica, poetica, tragica. Più ricca d’emozione e sentimento che di trofei

Valeria Biotti
22 Marzo 2021 - 20:00

Pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice Diarkos, il capitolo dedicato a Francesco Totti dal libro "Le leggende della Roma", di Valeria Biotti. «Abbiamo scelto di essere ostaggio di un amore - ha spiegato l'autrice -. Ed è la cosa migliore che potesse capitarci. C'è chi è Romanista per diritto di nascita, chi per spirito di contraddizione, chi per un caso fortunato o un benedetto contrattempo. C'è chi da bambino sognava di essere Bruno Conti e chi è rimasto folgorato davanti alla Sud, una domenica d'inverno. C'è chi è Giallorosso perché lo era Agostino Di Bartolomei; altri che lo sono diventati il giorno di Roma-Lecce. Qualunque sia l'imprinting, la strada o il motivo – se c'è – la Roma è una roba impiantata nel midollo. Non c'è squarcio che possa estirparla, sgarbo o buio che possa sbeccarne l'orgoglio, sbriciolarne l'identità. Ciò che ho imparato nel tempo, ascoltando le voci di migliaia di altri Tifosi, è che ognuno ha la propria Roma; e nessuno, invece, può arrogarsi la pretesa di parlare a nome di tutti. In fondo, è l'essenza dell'amore: universale, certo, ma anche unico, irripetibile, strettamente intimo e personale. [.. ]Ciò che è indiscutibile è la Roma. Gli interpreti, poi, sono solo uomini. Che ci hanno fatto scoppiare il cuore, ci hanno commossi, feriti. Ma comunque uomini. Ciò che resta, sempre, sono i Colori e la Maglia. Ciò che non passa sono i Valori e i Tifosi che li vivono. Ogni Romanista dovrebbe raccontare la propria Roma. Ogni Romanista e solo chi è Romanista. Perché – parafrasando Cesare Pascarella – ciò che pe' l'artri è storia, pe' noantri so' fatti de famija».

A A San Giovanni, dalle parti di via Vetulonia, c'è un bar di quartiere. Il caffè non è male e il luogo ha l'aria accogliente e informale; conserva quel piglio pratico e senza fronzoli del tipico bar di quartiere, appunto. Sembra il posto tranquillo dove passare dopo la scuola, invece di andare dritto a casa. Per un gelato, magari, e una partita a flipper. Se va bene, pure due. E poi, c'è il solito rito. «Spalle ar muro, regazzì, dritto 'n piedi, appòggiate alla parete. Su co' ‘ste spalle, guarda avanti, nun sta' gobbo. Già te dicono che sei basso, così certo 'n t'aiuti».
Si impettisce, allora, Francesco. Perché lo sa che la questione non è da poco.
La punta della matita traccia un segno lungo, sul bianco ombrato dell'intonaco, proprio a filo dei suoi capelli biondi. È inutile spettinarli per cercare di guadagnar centimetri, che poi quelli ti misurano davvero.
Il ragazzino si scosta, speranzoso, e guarda.
Qualcosa ha preso, è già più alto, dai. Magari sarà abbastanza per passare le selezioni, magari ce la farà a diventare un calciatore professionista. Il quartiere ci crede: tifa Totti quando ancora il mondo non ha bisogno di chiedersi se a Roma esista uno come lui.
[…]
L'espressione «al pallone dà del tu», con lui è più che letterale. Checco ci parla, di notte. Lo abbraccia e se lo infila nel letto.
Passano le ore più buie a confidarsi segreti, sogni e paure.
A ogni alba, si conoscono un po' meglio, si capiscono più in fretta.
Ecco perché sarà un amore lungo una vita: perché nato da sempre e tradito mai. Ricambiato, senza dubbi o incertezza alcuna.
Raccontare la storia calcistica del più grande giocatore in assoluto della storia della Roma è fargli comunque una scortesia, quasi un torto.
È impossibile essere esaustivi: appare un'operazione limitativa in ogni caso. Totti non è i suoi numeri. Intesi come cifre, né come exploit.
[…]
A descriverlo, non basta il pallonetto a Júlio César, il cucchiaio a Van der Sar, la staffilata di sinistro al volo contro la Samp.
Sono lampi d'eccellenza altisonante, certo. Ma Totti è oltre e di più.
È nelle aperture alla cieca; nelle traiettorie tracciate col fisico, con la palla e col pensiero. È negli spazi individuati o inventati dove sembrava impossibile trovarli. È nel principio dell'impenetrabilità dei corpi improvvisamente sbugiardato.
È in ogni singolo gesto tecnico: nel colpo di tacco, nel velo, nello scambio veloce, nella bordata senza complimenti. È nella capacità di tirar fuori il meglio dai compagni e nella forza di atterrire con la sola presenza gli avversari.
È nei minuti bruciati alla bandierina del calcio d'angolo, a guadagnare istanti e falli, per consegnare alla sua Roma un risultato faticoso da difendere. È nei suoi commenti scanzonati e nelle parole dure contro il potere. È nelle denunce contro una Juventus prepotente e contro arbitri mediocri. È nel calcio a Balotelli, nel grido di dolore sull'intervento di Vanigli. È in tutti i ruoli che ha ricoperto, sulla trequarti, esterno, prima punta; è nelle responsabilità che ha assunto. Nei no al trasferimento che ha ribadito.
Francesco è nei trofei che ha vinto ma soprattutto in quelli che non ha vinto. Nella gloria personale che ha scelto di rendere seconda al rapporto con la città.
Totti è nel feeling a corrente alternata con chi lo ha allenato: Mazzone, secondo padre; Carlos Bianchi, con cui non si è mai capito; Zeman, che gli ha insegnato a essere duro con se stesso e che lo ha amato come il miglior giocatore mai visto. Totti è nella delusione provata per la "fuga" di Capello e nella schizofrenia dei due Luciano Spalletti.
Poi, certo, è nei gol al derby. Nel "4 e a casa" ai bianconeri. Nel gesto stupendo che buca la Lazio in cui sembra il giocatore simbolo delle figurine Panini. Nel selfie con la Curva, nel "6 Unica" e "Scusate il ritardo".
È nei quattro minuti finali col Torino, in cui Spalletti lo mette dentro a tempo pressoché scaduto: lui fa due gol e gli restituisce pure un minuto e mezzo di resto.
È negli scherzi ai compagni e nello sputo a Poulsen. È nei murales in città e negli incubi di quelli nati prima che non hanno pensato a chiamarsi Roma. Totti è nei palleggi sotto l'acqua in una partita sospesa per pioggia e in cui tutti gli altri si sono rintanati al caldo. È nei festeggiamenti dello Scudetto, è con la Coppa del Mondo alzata verso il cielo. È nella grattachecca della Sora Maria e nei buffetti affettuosi ai bambini che lo accompagnano in campo prima dell'inizio della partita. È in ciò che ha fatto sotto gli occhi di tutti e nei pensieri più reconditi, in cui ogni giorno è stato chiamato a non perdere se stesso.
Ma Francesco Totti è anche e forse soprattutto il singolo, personalissimo Totti che si è stratificato – nel tempo – negli occhi e nel cuore di ogni tifoso. Anzi, di più: di chiunque lo abbia visto almeno una volta o ne abbia anche solo sentito parlare.
Francesco è nella voce stridula dei bambini che giocano su un prato. Si fanno la cronaca in diretta, ad alta voce, e gridano «palla per Totti e goooollll», mentre infilano il pallone tra due felpe appallottolate a delimitare una sorta di porta.
Totti è nel piatto di chi, a una mensa di quartiere, mette in bocca del cibo perché Francesco fa la spesa sempre per due: per "loro a casa" e per chi ne ha bisogno.
Totti è nelle notti insonni di chi sa che il giorno dopo ha il compito di marcarlo. Negli incubi di chi lo ha bocciato senza complimenti anzitempo e davanti alle telecamere, ora, cerca di difendere la propria parola stantia a costo di negare l'evidenza.
È nelle lacrime di una madre di famiglia che piange davanti alla televisione la sera dell'addio. Si ritrova a scoprire che è il suo Capitano pure se non ha mai visto una partita intera, ma ne ha ascoltate cinquecento dalla cucina, mentre lavava i piatti della domenica e dal salone le gridavano gli aggiornamenti sul risultato.
Totti è nelle pieghe dei campi che ha nobilitato con le sue giocate, nell'amore per la vita e per le persone a cui ha mandato una parola o un messaggio.
È nella maglia taroccata e sporca – con su scritto "Toti" alla bell'e meglio – indossata con orgoglio nel buco più polveroso del mondo da un ragazzino straniero che manco l'ha mai visto giocare.
È nell'acrimonia di chi lo paragonava al sole che tramonta sui tetti di Roma, nella debolezza di chi soffre il suo credito solo perché lo fa sentire in debito.
Di chi si consuma nella propria mediocrità, soffrendo l'altrui grandezza. E non sa provare riconoscenza.
Totti è nelle speranze di chi sogna di scoprire ogni giorno un nuovo Totti; e nel terrore di chi sa che in questa vita non gli sarà dato di vederne un altro.
È tra le braccia di chi ha sorretto in Curva lo striscione «Totti è la Roma»; e nella becera superficialità – esibizionista e sporca – di chi ancora ripete «è il male della Roma».
È nei salotti di chi si vanta di conoscerlo e nelle corsie degli ospedali dove nemmeno si sa per quante vite salvate, o solo accompagnate, bisognerebbe dirgli grazie.
È nella distratta allegria di chi prova a fare il sombrero con una lattina, in piazza, mentre nella testa canticchia l'inno della Champions.
E nella confusione di chi, non più giovane, biascica per l'ennesima volta il racconto del "giorno dell'invasione di campo" e intanto non riconosce più la moglie e la figlia.
È nell'orgoglio che si somma al fatto di essere romani e romanisti. Nell'onore e la dignità con cui ha indossato maglia e fascia di Capitano. È nell'umiltà e nell'amore per i colori per cui ha chiesto di non ritira- re la 10, in quel maledetto 28 maggio.
Totti è talmente Roma, da essere diventato più di Totti stesso.
Quasi una strana, inspiegabile, oggettivata cosa a sé; un luogo dell'anima, un'idea platonica. Che gli è sfuggita di mano quando nemmeno si era accorto di averle dato vita o di essersela ritrovata addosso.
Totti, oggi, è nei pensieri di chi spera di riaverlo alla Roma; ma ha anche paura di vederlo tornare, paura che si bruci.
È nel lento scuotere della testa, quasi sovrappensiero, di noi che ogni domenica, leggendo la formazione, a mezza bocca commentiamo: «Mannaggia alla miseria, mannaggia. Qua ci vorrebbe Totti».

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