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romanzo bipolare

Roma scapoccia: testacoda, da tutto a niente

In una settimana la squadra ha mostrato il meglio e il peggio di sé: gagliarda e dominatrice nel derby, molle e sciatta al Mapei. Ora barra dritta

Paulo Fonseca, di Mancini

Paulo Fonseca, di Mancini

30 Novembre -0001 - 00:00

Al fischio finale di Pairetto, una sola espressione è stata visibile su tutti i volti presenti a Reggio Emilia, dalla tribuna al settore ospiti, dai punti di ristoro ai parcheggi: «Ma che davero?». Come fosse sospesa nell'aria la nuvoletta dei fumetti, sopra la testa di ognuno, con tanto di fulmini, saette, teschi e punti esclamativi. Poca voglia di parlare, ma certa mimica facciale non necessita di grandi interpretazioni. Chi ha bisogno di essere decifrata, interpretata, decodificata è la Roma. Quantomeno quella di questo inizio 2020. Così diversa dal resto della stagione. Non solo e non tanto nei numeri, quanto negli atteggiamenti. La squadra gagliarda e tosta che soltanto poche settimane fa fronteggiava qualsiasi emergenza con una tigna quasi senza precedenti (non recenti perlomeno) ha lasciato spazio a una brutta copia confusa e molle, che alla prima difficoltà tende a sciogliersi. Di più: ha mostrato il meglio e il peggio di sé nell'arco di una settimana. Sei giorni ad essere precisi. Tanti ne sono passati da un derby non vinto soltanto per cause di forza maggiore (sfortuna, arbitraggio) a un tracollo inatteso e aggravato da modi e proporzioni. Bella, forte, unita, determinata, coraggiosa, autorevole, solida: appena domenica scorsa. Fragile, sciatta, insicura, nervosa, inconsistente al Mapei. E con tutto il rispetto, di fronte al Sassuolo, non a Barcellona o Real. Inevitabile, forse persino ovvio, lo scoramento dei tifosi, le reazioni attonite di chi aveva visto un gruppo rinascere sotto la guida sicura di Fonseca, dopo i disastri della scorsa stagione.

Con il portoghese in panchina mai si è avuta la sensazione di un gruppo allo sbando, mai una sconfitta si è trasformata in disastro. Fino al Mapei. Fino a un primo tempo che grida aiuto più che vendetta. E alzi la mano chi dopo il 3-0 non ha provato un brivido e avvertito l'avvicinamento dei peggiori incubi, dei più tragici deja-vu. È proprio la domanda esistenziale quella che ha fatto capolino nelle teste di chi per una volta era portato a sentirsi sicuro, a pensare che «stavolta no, non accadrà, non si sbraca». E invece si è rivisto tutto l'armamentario fin troppo conosciuto. L'espulsione, le mille ammonizioni come fossimo la squadra più cattiva del campionato (purtroppo no, solo la più punita), la rimonta fatta annusare e smontata un nano-secondo dopo. Tutto da manuale mainagioista. E perciò poco appartenente alla Roma versione fonsechiana, così diversa dalle ultime, così ribelle al destino avverso da fare inorgoglire nuovamente il suo popolo (l'amore non è mai mancato, la fierezza qualche volta in più del lecito). Credere che sia quello del derby il volto vero, anche nell'atteggiamento esteriore - spavaldo, a petto in fuori, con la testa in su - non è solo un auspicio, ma quasi un dovere. Lo si deve al credito accumulato dal tecnico nella gestione complessiva da luglio a dicembre. E alla salute psico-fisica dell'intero mondo romanista. Il romanzo bipolare è roba già vista, stantia. «Questa è l'ora de mostra' quanto valemo».

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