AS Roma

Solo un sogno, ma...

Il pre-partita con il Como è un mix emotivo di speranze e preoccupazioni. Ma finisce bene e allora ci si può concentrare su Torino. Sarà pure un’illusione, ma continua

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
17 Dicembre 2025 - 08:00

«Sono tre punti troppo importanti»; «andare a Torino che sei nel gruppetto di testa darebbe morale»; «io mi ricordo ancora il gol e l’esultanza di Gabrielloni». 
C’è tutto in fila ai tornelli: c’è l’ora e l’adesso; c’è la visione prospettica; c’è che certe sconfitte non si sono dimenticate. Si vorrebbe restare alla quota di Glasgow («Che bello se fosse sempre così») ma la consapevolezza è che quel Celtic «da noi starebbe in B». Ed allora, se si gira la pagina ancora indietro, appare Cagliari e, prima ancora, Napoli. Ed allora sale una qualche preoccupazione. Perché la speranza è «di ricominciare dal primo tempo di San Siro» sperando di trovare, a differenza di quella partita, «qualcuno che segni». Ma la speranza, appunto. La certezza è che gioca Ferguson, che ha dimostrato, sì, di sapere segnare («Il secondo è stato da punta vera») e di potere far respirare la squadra, senza dovere ogni volta «costringerci a portare il pallone palla a terra per cinquanta metri», ma che l’ha fatto contro una squadra che da noi avrebbe difficoltà non a vincere ma anche soltanto a pareggiare. 

Qui c’è il Como, quello di Fabregas, di Nico Paz, delle star in tribuna. Quello, però, «che una ne fa e cento ne pensa» e che, quindi, «potrebbe vincere e perdere con chiunque» Si avverte un po’ di preoccupazione. Soprattutto in quelli (tra cui è ricompreso chi vi scrive) che hanno deciso di passare la giornata di sabato a Torino. Perché una cosa è andare in quella meravigliosa fredda città incollati al gruppetto di testa, dopo una vittoria, con il morale che ti ha accompagnato per tutta la settimana; altra è andarci con un pareggio dopo due sconfitte consecutive o, peggio ancora, «dopo che hai perso un’altra volta». 
Ma soprattutto si avverte la voglia di ritornare a crederci. Perché, se una responsabilità dobbiamo dare a Napoli e Cagliari, è stata soprattutto quella di averci fatto smettere di sognare. Perché, è inutile dirlo, nessuno ha mai pensato di vincere lo Scudetto. Ma, ed è altrettanto inutile dirlo, quando stai lassù, a stagione bella che iniziata, è comunque, diciamo così, piacevole guardare, distrattamente, la classifica, e rendersi conto che, se quella pareggia e quell’altra pure, perché no. E poi c’è voglia di tornare a Torino come quando ci andavamo belli e vincenti, guardandoli dall’alto in basso. Con la speranza che, se per caso vinci, c’è poi da percorrere tutto il viaggio, ma in autostrada, senza più tornanti. 

Ci sediamo, quindi, con quella faccia un po’ così, di quelli che stanno in attesa di vedere che succede ma, per non farci mancare niente - perché siamo sempre noi, sia chiaro - con quella sottile polemica inespressa su «che fine farà Dybala». Perché, va da sé, se il più forte in rosa non gioca e fa panca vuole dire che non gioca ma sta bene. E se sta bene e non gioca vuol dire che Gasp non lo vede. E se Gasp non lo vede abbiamo un problema, «perché tutti hanno visto come gioca Dybala», e tutti sanno che «di lui, in forma, non puoi fare a meno». I primi minuti, quindi, giusto il tempo di capire che il Como palleggia e corre, vengono assorbiti dal dilemma Dybala. Si passa dal «vedrai che lo mette nel secondo tempo» al «lo vuole in forma per la Juventus». 

Ma il campo ruba l’occhio. Perché giochiamo, e pure bene. Il pallone corre, la difesa chiude, l’attacco. Ecco, l’attacco. Non buttiamo dentro un pallone che è uno («Stiamo ripetendo San Siro, speriamo bene …») ed i seggiolini, a macchia di leopardo, rimpiangono chi Dovbyk, chi Baldanzi, chi, ovviamente, Dybala. Per amore di verità, il Vostro cronista deve citare anche due appelli, non proprio convintissimi, anche in favore di Bailey, del quale mancherebbero in campo, a dire degli interessati, l’imprevedibilità ed il tiro. In realtà ti rendi conto che alla Tevere non manca né l’imprevedibilità, né il tiro, né il falso nueve. Alla Tevere manca semplicemente un gol. Un gol qualunque. Che scacci questa paura di non farcela («Voglio segnare…non ne posso più…») e che, magari, ci porti a farne un altro, e un altro ancora, come «a Celtic». 

Si vuole questo: una Roma bella e concreta, non bella e sterile come a San Siro, bellina e inefficace come contro il Napoli, bruttissima come contro il Cagliari. Bella e che segni. Bella e che non ci faccia stare sui carboni ardenti per novantasei, novantasette minuti. E invece no. Meno male che ci pensa Svilar alla fine del primo tempo, perché il secondo inizia come il primo, ma meno bene. Poi, dopo, quando França fa Angeliño, inizia una discesa di trentasette minuti fatta di recuperi affannosi, ripartenze buttate, Svilar e l’arbitro. 

Che io mi domando sempre, se fossi un arbitro, come mi comporterei con quelli che, fino a quando non passano in svantaggio, le provano tutte affinché non si giochi e, poi, una volta sotto, si riaccendono come una lampadina. E mi domando sempre, se fossi un arbitro, quale ragionamento mi possa spingere, a tempo scaduto, dopo avere fermato il gioco per permettere le cure ad un giocatore a terra, a riconsegnare la palla al Como - che tutti, ma proprio tutti, abbiamo visto che la stava giocando la Roma – facendo vivere a quella moltitudine di seggiolini ulteriori sessanta secondi che non li auguro nemmeno al mio peggior nemico. 
Ma finisce bene. Davvero bene. Ed allora possiamo preoccuparci del treno, dell’albergo, del solito ristorante, di quello che potrebbe essere domenica. Perché, malgrado si tratti di un semplice sogno, vi do una notizia: continua.

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