AS Roma

Il coraggio in un abbraccio

Odio la retorica e non vorrei che queste righe suonassero come un inno sdolcinato alla nostra passione calcistica. Ma la Roma è stata una delle medicine più importanti

Bandiere che sventolano all'Olimpico

Bandiere che sventolano all'Olimpico

PUBBLICATO DA Alessandro Cristofori
21 Settembre 2023 - 09:00

Non potrò mai dimenticare quel giovedì di novembre. Ero ricoverato presso l’ospedale Vannini, per via di una febbre aggressiva che mi tormentava da giorni. Quel giovedì pomeriggio, la febbre, aveva deciso di esagerare e si era portata con una rapidità inquietante vicino ai 40. A quel punto ero in preda ai deliri e gridavo aiuto. In quelle confuse richieste di soccorso, ricordo che ad un certo punto, ho avuto la “lucidità” per chiedere: «È iniziata la partita della Roma? Dobbiamo segnare subito». Quello era il giorno di Roma-Ludogorets, partita decisiva per la qualificazione nel girone di Europa League, il calcio d’inizio era previsto per le 21 ma io, in stato di semi incoscienza, ero preoccupato per le sorti del match.

Il mio percorso di cure sta andando avanti da mesi e in questo lungo periodo, la Roma è stata una delle medicine più importanti. Giuro che odio la retorica e tutto vorrei tranne che queste righe suonassero come un inno sdolcinato alla mia, nostra, passione calcistica. Prendetela come una testimonianza diretta di chi è alle prese con esami, ricoveri, chemioterapie e analisi.

La Roma mi ha fatto compagnia, nonostante i mediocri risultati prima della sosta pre mondiale, nella terapia intensiva cardiologica. Oppure, quando nell’ultimo giorno di ricovero al Gemelli, per esultare al 2-2 di Abraham contro il Milan, ho rischiato di far saltare i punti che mi medicavano la ferita post biopsia.
La mia Roma mi ha accompagnato da quando ho appreso la diagnosi “Linfoma T non hodgkin”. Ad ogni seduta di chemioterapia, ero lì con il mio smartphone versione multitasking: rassegna stampa, siti per cercare di capire chi fosse sto Diego Llorente e Radio Romanista nelle cuffiette.

Mourinho e i calciatori non lo sanno, ma quella cavalcata europea, anche se conclusa in quel modo, mi ha aiutato a sentirmi vivo. Perché quando non puoi lavorare e passi le tue giornate a casa, seppur alle prese con due adorabili quanto scatenati nanerottoli e alla compagnia di un gatto, rischi veramente di andare in down di motivazioni. Il futuro è incerto e il presente non è da meno. Invece, il cammino iniziato con il preliminare contro il Salisburgo mi ha trasmesso una carica e una speranza a cui aggrapparmi. Le settimane di attesa tra l’andata e un ritorno, la curiosità per un sorteggio, l’adrenalina della gara e dei giorni che l’avvicinavano mi hanno aiutato a non pensare.

Ho fatto una tac dopo Roma-Feyenoord e mi sembrava un segno del destino, dopo Real Sociedad-Roma sono andato subito a controllare se il giorno della finale, avessi terminato il mio percorso chemioterapico. La semifinale di ritorno  con il Leverkusen è quella che forse mi ha emozionato di più, quasi commosso, tanto da farmi quasi dimenticare che da lì a pochi giorni avrei avuto una delle ultime chemio.
La finale è andata come è andata ma voi non avete idea quanto mi abbia regalato quell’emozionante e interminabile attesa, non sentivo più nessun effetto collaterale, tutta la mente e forse anche il corpo era orientato su Budapest.

Il giorno dopo è stato come quello di tutti voi ma comunque è stato importante viverlo, viceversa non dico che non sarei qui ma forse non avrei fatto il percorso netto che ho fatto nella mia malattia, dove il linfoma in completa regressione mi ha consentito di sottopormi all’autotrapianto e anche qui, in una camera di 10 metri quadri, completamente isolato, mi sono vissuto le amarezze di Verona e Milan ma anche il 7 a 0 contro l’Empoli e il volo di Lukaku da Londra a Roma. Insomma quante volte in un tuo abbraccio ho preso coraggio.

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