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L'intervista, Giovanni Piacentini: «La mia gloria da derby»

Sei stagioni e un solo gol, bellissimo, in A con la Roma. Alla Lazio nel ’93. «Ancora oggi la gente me lo ricorda. La mia squadra? Era forte, ma la società era instabile»

16 Novembre 2017 - 12:30

Se segni in un derby hai la gloria nei secoli. È proprio così e vale anche e soprattutto per quei giocatori che davano il fritto in campo, i cosiddetti gregari, per i quali le luci dei riflettori si accendono raramente, ma senza i quali neanche le stelle potrebbero brillare tanto a lungo. E questo è quello che è successo a Giovanni Piacentini, sei stagioni e un gol in A con la maglia giallorossa al suo attivo. Alla Lazio. Era il 24 ottobre 1993, era la nona giornata: «Ci fu questo pallone alto respinto da Marchegiani di pugni, calciai al volo senza pensarci su,fu una gioia indescrivibile», è il suo ricordo. Una corsa e poi giù in ginocchio per esultare un po' alla Di Bartolomei e ritrovarsi addosso tutti, da Giannini a Lanna, da Garzya a Bonacina. Anche se quel derby fu un po' amaro e finì 1-1 perché poco dopo pareggiò l'ex Di Mauro: "Un gol storico, avrebbe meritato una vittoria", dichiarò dopo la partita. Pochi ma buoni, i suoi gol (dopo tre giorni segnò anche alla sua ex squadra, il Padova, in Coppa Italia). Un altro solamente nella massima serie, quando era a Bologna: «In realtà ne ho fatto un terzo a Firenze, ma non me l'hanno assegnato, perché ci fu una deviazione, ai miei tempi ancora non c'era la regola di adesso. Oggi sarebbe il mio terzo gol in serie A. Sono pochi, è vero, e quello con la Lazio fu il primo in serie A ed è un ricordo meraviglioso, è qualcosa che rimane dentro tutta la vita. La cosa piacevolissima è che quando torno a Roma, spesso mi capita anche per lavoro, incontro sempre qualcuno che me lo ricorda. L'anno dopo il 3-0 sempre con Mazzone, altra bella pagina».

Potremmo finirla qui, invece no. Perché Piacentini a Roma - e il derby c'entra e non c'entra - ha lasciato una bella fetta di cuore e una bella fetta i tifosi romanisti l'hanno lasciata a Giovanni, quasi sempre numero otto in quella Roma in perenne "anno di transizione" del post-Viola e del pre-Sensi, al quale si faticava a fare l'abitudine.

Ha lasciato il calcio, in tutto e per tutto, come scelta di vita, per dedicarsi insieme ai fratelli all'azienda di famiglia di costruzioni, che ha quasi ottant'anni: «E me ne occupo da una ventina ormai, da quando ho smesso di fare il calciatore, ero tra Modena e Bologna e già la seguivo prima di chiudere la carriera, quindi è stata abbastanza soft l'entrata in azienda», ci racconta. Del calcio di oggi sa «molto poco», perché non lo appassiona più di tanto: «Non ho molto tempo, ma soprattutto penso che si faccia un po' di fatica a innamorarsene oggi si è perso qualcosa che assomigli, diciamo così, al romanticismo». E sì che Piacentini faceva parte di una Roma romantica, forse meno forte e meno moderna di quella attuale, ma alla quale sicuramente non mancava il cuore e il trasporto: «Più che altro erano degli anni travagliati a livello societario. Se andiamo a vedere quello che poteva essere quella Roma con un po' di stabilità e un po' di programmazione, per i giocatori che son passati in quei sei anni che sono stato nella Capitale, bisognerebbe togliersi tanto di cappello oggi. Avevamo una grande qualità. Son passati giocatori di livello eccezionale. A Roma già è difficile gestire l'entusiasmo e l'ambiente, ci voleva una società stabile. Io ho vissuto il periodo della morte di Viola, l'arrivo di Ciarrapico, poi il duo Mezzaroma-Sensi. Che poi è riuscito a programmare e a vincere uno scudetto. A noi mancava un po' di equilibrio, ci siamo però tolti anche delle soddisfazioni».

Una squadra, come si dice, "testaccina", che portava con sé il tifo: «Nell'anno al Flaminio la gente si innamorò della squadra, non c'erano grandi attese, se non quella dell'arrivo di Ottavio Bianchi. Con Radice invece facemmo un campionato interessante, andammo in Coppa Uefa, la squadra era unita e si percepiva che il gruppo aveva passione e per la gente romanista questo è importante. Avevamo la curva Sud attaccata…».

Un po' come sarà nella nuova casa della Roma che la proprietà americana vuole realizzare a Tor di Valle: «Ne sento tanto parlare. È certo che per fare calcio in una certa maniera, se si cerca anche la spettacolarità, bisogna andare verso un modello di stadio dove la gente stia bene e stia come a teatro, non si possono più concepire stadi con la pista di atletica o la bolgia enorme, è finita quell'era. Bisognava forse farlo trent'anni fa, ma non è mai tardi per iniziare. Dove ci sono gli stadi per il calcio la gente va più volentieri e tutto è probabilmente più gestibile a livello di sicurezza per poter andare allo stadio con la famiglia. Ne guadagna anche il movimento».

A proposito del movimento Italia, lo scossone - se di scossone si tratterà - sembra abbastanza lungo da venire: «È una situazione triste, indipendentemente dal fatto che l'Italia non andrà ai Mondiali. Anche a me fa strano. Penso però che sia lo specchio della mancata programmazione di questi anni, anzi, forse di qualche decennio, al di là della parentesi di aver vinto in Germania nel 2006. Anche nelle piccole realtà, a cascata, il sistema funziona così: a Modena una società con più di cento anni è fallita. Bisogna fare dei progetti e lavorare molto sui giovani, non è possibile che non ci sia un giocatore del territorio tirato su dal settore giovanile che possa esordire in prima squadra. La Roma è un'eccellenza in questo senso».

Per i giallorossi è stata un'annata di addii, quello di Totti al calcio, e quello di De Rossi alla Nazionale: «La fine di un'epoca. De Rossi non ho mai avuto il piacere di conoscerlo, Francesco in quegli anni è cresciuto con noi. Fa sempre molto dispiacere veder smettere un giocatore di questo genere, però era chiaro che fosse arrivato il momento, lui doveva uscire alla grande ed è andata così. Questo è un lavoro in cui a una certa età bisogna appendere gli scarpini al chiodo. Lui ha dimostrato per tutta la carriera quello che è sempre stato: un ragazzo umile, intelligente e un grande professionista». Per entrambi, simboli di Roma, sarà un derby diverso, uno da dirigente e l'altro da unico capitano. E da vertice, perché Roma e Lazio fanno parte con merito del club delle cinque sorelle: «Sono due squadre che al momento si equivalgono abbastanza, fanno un calcio di buon livello. Il derby è una partita strana, diversa da tutte le altre, a dispetto di ciò che si dice. Ah, io ovviamente tifo Roma».

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