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Pierino Prati e la rete dell'orgoglio

Il suo gol alla Juve è un inno contro i 'laziointeristi'

21 Settembre 2017 - 18:05

Collocato fra due parole un trattino può assumere valenze multiple. Immaginiamolo, ad esempio, tra i nomi di due città. Napoli, trattino, Milano. Potrebbe essere un Rapido. Segnala una distanza, assicura un percorso. Adesso togliamo una lettera, una sola: Napoli, trattino, Milan. Napoli-Milan. Già, se i nomi sono quelli di due squadre il trattino non collega ma divide, crea conflitto. Versus . E noi sappiamo che dove c'è una partita c'è un trattino. Ciò detto, il campionato 2009/2010 ci ha consegnato una colossale novità planetaria: la prima partita senza trattino nella storia del calcio e la conseguente nascita di un'entità mai apparsa prima d'ora sulla faccia della terra. Uno strepitoso ibrido il cui nome è: LAZIOINTER. Su queste pagine non credo sia necessario ricordare la vicenda che ha prodotto un simile neologismo, tanto mostruoso quanto necessario a definire una mutazione genetica a cui si deve l'avvento di una nuova specie antropologica: i laziointeristi. Coi suoi cori, coi suoi "Forza Laziointer!", e col suo stadio imbandierato a tre colori. Un obbrobrio che tuttavia non attende vendetta, poiché di fatto già l'ha avuta.

Decenni fa. In un gol provvisto di una portata etica che ancora insiste a identificarci. Era un pomeriggio tiepido la cui data è il titolo di un carme manzoniano da antologia scolastica. Il 5 maggio. L'anno, il '74. All'Olimpico arrivava la Juventus, noiosamente in lotta per lo scudetto. Attenzione! Già l'anno prima ci era capitato di giocare all'ultima di campionato un Roma-Juventus che, insignificante per noi, avrebbe potuto far vincere il campionato alla Latio (disdegno grafico più che legittimo, quella t: da Latium), il che sarebbe avvenuto con una vittoria latiale a Napoli e con le contemporanee sconfitte di Juve e Milan. Nel primo tempo noi andammo in vantaggio con Spadoni. Il suo gol, fatto con la maglia di una Roma a pezzi, mi fece piangere. Ancora non si sapeva cosa stesse combinando il Milan col Verona, né se gli slavati stessero o no vincendo al San Paolo. Per noi, in quel momento, valeva solo una questione chiamata: Roma, trattino, Juventus. Roma contro Juventus. La nostra emozione dominante era la più assoluta indifferenza nei confronti di tutto ciò che ci prescindeva. A cominciare da quell illà , che peraltro erano presenti: appizzati sulle colline che ancora cingevano a vista l'Olimpico. Puntini umani sfocati in mezzo alle frasche, resi ancora più sfocati dai colori che indossavano. Intanto, altrove, l'improbabile si andava materializzando: il Milan prese a ruzzolare al Bentegodi, mentre gli azzurropallidi andarono in svantaggio al San Paolo quando ancora a Roma stava vincendo la Roma. Se il nostro risultato avesse retto, il consorzio regionale del centro Italia (un modo lungo per dire poco) avrebbe potuto vincere il suo scudetto numero uno, oppure no. Molti di noi avranno valutato le due opzioni trapiantando prima l'una e poi l'altra nel prossimo futuro e soppesando la differenza tra un mondo con la Latio scudettata, oppure no. Sta di fatto che, senza alcuna gioia, infine perdemmo.

Passa l'estate. Il campionato '73/ '74 recita un copione affine al precedente. Quelli ai piani alti, noi ai piani bassi. E manco fosse un remake, con un Roma-Juventus decisivo per loro a fine stagione. Non all'ultima, ma alla terzultima. Sfida incrociata Roma-Torino. I neozelandesi (li chiamo pure così, poiché ai nostri antipodi) sopravanzano i bianconeri di tre punti. Se vincono e noi pure, vanno a più 5: ce l'hanno fatta. Se perdono e noi pure, si trovano a più 1: è ancora da fare. Se perdono e noi vinciamo, restano a più 3: è quasi fatta. Con che stato d'animo approcciare la faccenda?... Durante la settimana sir espira perplessità. Ciascuno di noi è rimandato a un personale esame di coscienza. Faccia come crede, poi domenica lo stadio farà comprendere all'istante quale sarà l'umore naturale della maggioranza, che si presenterà comunque sugli spalti onusta dei nostri colori, solo dei nostri e basta. Domenghini all'11' va in gol. Roberto Frosi, sul Messaggero, redige così la dinamica del tutto: «Morini faceva spiovere in area un pallone per Prati che, troppo spostato sulla sinistra, non poteva tirare ma controllava con una mezza giravolta e dava indietro a Domenghini che lasciava partire un bolide imparabile andando poi a raccogliere un applauso sotto le curve». Sotto le curve. Dunque, esultanti. Dunque, vogliose di godersi quel gol, senza retropensieri. Uno a zero. Pacche sulle spalle e vai così, anche se la partita ci tocca seguirla con un cappellaccio in testa. Lo stesso che siamo stati costretti a calzare l'anno prima in circostanze simili. Un cappellaccio largo e floscio: le colline stracolme di intrusi il cui boato al gol non è comunque superiore al nostro. Due boati diversi. Il loro è logicamente isterico, il nostro comprensibilmente sereno. Non abbiamo nulla in cui sperare e poco da temere. Siamo quasi salvi. Poi Anastasi pareggia. Mormorii di disappunto. E anche stavolta il brontolio non è solo nostro. Noi il suono, loro l'eco. Ma come si permettono di intromettersi in un dispiacere altrui? Li scruto, incastonati nelle chiome degli alberi. Palle di Natale a trapuntare qui e là il verde cupo della fioritura. E si sono pure imbandierati!... Coi pannicelli di bucato! Ma sperano cosa?... Che i nostri giocatori possano essere sospinti dalle tinte dei loro? Certo che è dura trasformare l'indifferenza in una fede quando colui che ti sforzi di ignorare si è messo lì e incombe. Mi guardo attorno. Non sono il solo a patire un principio di deriva morale. Perché dargliela vinta?… Perché vincere e farli vincere?... Visto che non si vince, tanto vale non vincere. Ma senza far nulla per non vincere, sia chiaro. Solo nel caso non si dovesse vincere.

Al 42' del primo tempo Negrisolo incorna di testa e ci riporta in vantaggio. Tra gli sterpi si notano sbotti di allegria.«Nun ce sperà - fa qualcuno vicino a me - che te dicano grazie. Quelli so' convinti de vince' a Torino, e allora sai che je frega de cosa famo noi!». È così, il popolo dei rami vuole convincersi di battere i granata per non doverci nulla. Lo si coglie nell'aria. Mastico amaro. Mi incupisco e rinsavisco nel giro di pochi istanti. «Ma che me frega a me de quello che fanno loro!». L'indifferenza, musa sovrana, mi ammanta il cuore e lo pacifica. Passato l'intervallo, la partita ricomincia dalle radioline. La Latio è sotto di due gol a Torino. Doppietta di Paolino Pulici. Le colline aguzzano gli occhi come mai hanno fatto nei primi 45 minuti. A questo punto vi domando: avete memoria, voi, di partite della Latio che abbiano contemplato un'analoga intrusione giallorossa? Io no. Nel secondo tempo, al settimo, la Juve pareggia di nuovo con Anastasi. Grande duetto in area con Capello e 2-2 sotto la Sud, davanti a me. Vabbè, ci abbiamo provato. Come l'anno prima: il divario c'è. Come da tempo. Le squadre traccheggiano a centrocampo. A questo punto mi è difficile non pensare ai fatti miei. Tipo a Storia dell'Arte che porterò alla Maturità come terza materia e alla tipa con cui lo preparerò. D'un tratto, qualcosa mi richiama al presente e mi trovo avvinto da un moto di folla che trattiene il fiato. Un'onda al cardiopalma si spande verso la Nord. Morini lancia un pallone lungo in area, lunghissimo, da sotto la Tevere, verso una lingua di fiamma che si torce, si divincola e si avviva in un istante. Prati Pierino, il pestifero, lento di passo ma saettante nei movimenti da equilibrio statico, si solleva a fuso, erge il petto e lo inarca a stoppare la sfera con sontuosa eleganza dando le spalle alla porta, che, per me in Sud, è un rettangolo minuscolo inciso ai limiti del mondo. La palla picchia in terra e, sul rimbalzo, Pierino ha una torsione repentina, la impatta di collo pieno e in una mezza girata di bellezza euclidea la sbatte sotto la traversa marmorizzando Zoff. Il mondo e l'anima ne sono tramortiti.

Sulle gradinate, chi non sapeva che fare, né sapeva che avrebbe fatto semmai avessimo segnato, ora lo sa. Urla, questo fa. Troppo giusto e troppo bello, quel gol, per non essere nostro! Lo vogliamo! Ci appartiene! Assieme a tutti esulto anch'io, con piena consapevolezza, sia etica che estetica. Mai visto così bene dal parterre della Sud un gol fatto sotto la Nord! Benedico la miopia accresciuta che, pur negandomi un'agognata carriera da portiere, mi ha imposto lenti che ricusavo da troppo, e che dunque mi ha permesso al meglio la visione di quel gesto magnifico. 3 a 2! Roberto Frosi scrive: «Esplodeva di nuovo la santabarbara del tifo». Esplodeva. Verbo enfatico, scelto con proprietà di linguaggio. Esplose uno stadio che quanto minimo non disse: «No!», e il suo non dire «No!» fu eclatante. Esplose di giallorosso nella parte autentica sugli spalti, mentre più su, alla periferia del paesaggio, diffuse un tremito cilestrino opaco nella moltitudine sparpagliata di straforo tra i pini, dove volano i gufi. La pentola vibrante, e il coperchio che anela a danzare quando bolle l'acqua. Gli occhiali di quel 5 maggio '74 ce li ho ancora. Brutti, massicci. Un design declinato da tempo immemore, ma il gol di Pierino sta lì, preso per sortilegio nelle loro lenti, intrappolato in una trasparenza che lo conserva come un motto luminoso. Un gol che nei primi anni Settanta definì da subito il senso della nostra incapacità a derogare da noi stessi. Quel gol fu una primigenia risposta alla nefanda questione che, a proposito di Laziointer, farà dire, la sera del 22 aprile 2010, a un Kolarov già romanista in pectore: «Mai giocato in una situazione del genere!». Per quanto ci riguarda, mai giocate partite senza trattino.

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