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Il calcio è il nostro gioco

Quando da bambini usavamo di tutto per fare i pali della nostra porta

Due bambini giocano in una strada di Trastevere (Instagram g10vannimalagisi)

Due bambini giocano in una strada di Trastevere (Instagram g10vannimalagisi)

29 Maggio 2020 - 18:54

Molti bambini giocavano a nascondino, altri si rincorrevano oppure si inventavano qualche divertimento estemporaneo. 

Tu no

Perché un giorno della tua vita hai scoperto il pallone e non lo hai più lasciato. Tanto che, tra ragazzini che non si accontentavano mai — di niente — ed altri perennemente insoddisfatti spiccava, sempre, il tuo sorriso. Perché a te, per essere felice, bastava poco. Anzi, di meno: quel pallone

Pensaci: zaini, sassi, bottiglie, bastoni, ciabatte... nella tua infanzia non c'è stato oggetto che non ti è stato utile per fare i pali. E chi se ne frega se dietro quelle porte non c'è mai stata una rete a fermare la palla: toccava al portiere andarla a riprendere. Ma solamente se riuscivi a segnare… perché altrimenti, se tiravi fuori, eri tu il malcapitato di turno. 

Ciccia. 

Con il sudore in fronte, le ginocchia sbucciate e l'aria di chi non voleva essere in nessun'altra parte del mondo se non in quel piazzale, in quell'androne, cortile o davanti quella serranda di quel box auto che, ogni volta che segnavi, rimbombava e faceva affacciare una signora, acida, sempre pronta a minacciare il più classico dei: "A ragazzi', ve lo buco quel pallone". 

E quel pallone era sempre un Super Santos arancione, un Derby giallo o, soprattutto, il più classico dei Tango, bianco: tutti meno che il Super Tele perché quello, era cosa nota, andava a vento. Con i due più forti a fare le squadre che, via via, componevano scegliendo per capacità ma anche per simpatie personale. Uno dopo l'altro divisi per squadra fino all'inevitabile: il più scarso finiva sempre come alternativa al pallone per il calcio d'inizio. 

Partite che iniziavano quattro contro quattro e si finivano in venti. Partite che "Chi arriva prima a sette, vince" e poi, invece, a dieci. Anzi, no: a venti. Oppure facciamo così, fino alle sette di sera con il buio che arrivava e, con lui, tua madre a chiamarti prima con discrezione e poi, sempre di più, in maniera risoluta fino alle, inevitabili, minacce. 

Quelle grida rappresentavano la tradizionale chiosa di quei pomeriggi spensierati fatti di corse e rincorse, sogni e pallonate, sorrisi e sangue, fontanelle e abbracci. Quelle, interminabili, partite sono la tua infanzia, il patrimonio di migliaia di bambini che, rincorrendo quella palla, hanno sognato di essere Bruno Conti, Rudi Voeller o Francesco Totti a seconda della loro generazione perché il tempo ha cambiato il mondo ma due cose sono rimaste indenni: il pallone e la ROMA. Ognuna delle due non avrebbe senso senza l'altra.

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