AS Roma

Castan: "Solo io so quello che ho passato, ora vivo davvero"

L'ex difensore giallorosso si è raccontato a trecentosessanta gradi in un'intervista, parlando della sua esperienza in giallorosso e della malattia che gli ha cambiato la vita

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA La Redazione
12 Maggio 2025 - 11:21

L'ex difensore della Roma Leandro Castan si è raccontato in un'intervista a gianlucadimarzio.com, in cui ha parlato della malattia che gli ha cambiato la vita, del ritorno in campo e del suo futuro. 

Di seguito una parte dell'intervista: 

13 settembre 2014: Empoli-Roma

"Tutto bene?”, mi chiese Maicon. Durante il riscaldamento sentii un fastidio al flessore. “Leandro non sta bene”, disse a Rudi Garcia all’intervallo. Cambio. Esce Leandro Castan. Cala il sipario. Per sempre. Torno a casa e inizio a non stare bene. Passa la notte, mi sveglio. La mia testa gira, gira forte. "Cosa mi sta succedendo? Sto morendo?”. Andai in ospedale. Mi fecero una risonanza magnetica. Guardai il dottore della Roma. Era preoccupato. “Cosa mi avete trovato?”. “Niente, vai a casa. Ti chiamo dopo”. “Dimmi cos’ho”Ero nervoso. “C’è qualcosa al cervello”. Mentre stavo tornando, chiamarono per dirmi di tornare in ospedale. Non capivo più nulla. Mai avrei pensato di poter vivere qualcosa di simile. I primi 15 giorni furono terribili. Non mi reggevo in piedi, vomitavo molto, persi 20 kg. Ero senza forze. All’inizio la Roma scelse di nascondere tutto. Decisi di isolarmi. Tolsi i social. Ma un giorno guardai il telefono. Su Twitter mi uscì un articolo. “Leandro Castan ha un tumore, potrebbe morire”. La paura mi invase. Io non sapevo ancora cosa avessi. Nessuno mi aveva detto niente. Né il club, né i dottori. Nessuno. “Stai calmo”, mi ripetevano. Poi quel pensiero: mio nonno era morto per un cancro al cervello. “Sarà così anche per me”. Passano settimane. “Hai un cavernoma cerebrale. Non potrai più giocare a calcio”. Buio. “È la fine”. La testa va, non si ferma. Mi chiamarono in clinica e mi dissero tutto. “Al terzo mese della gravidanza il tuo cervello si è sviluppato in modo non corretto. Se prendi una botta durante una partita ti potrebbe partire un’emorragia cerebrale e potresti morire. O smetti o ti operi”. Mi avrebbero dovuto aprire la testa. Un intervento molto pericoloso. “No, non lo faccio”.

Dentro di me c’era la convinzione di non operarmi e di dire addio al calcio. Poi un giorno, guardando una partita, cambiò tutto. “Non posso smettere”. Chiamai mia moglie per dirglielo. Poi sentii il dottore. “Va bene Leo, passa il Natale con la famiglia e poi ti operiamo”. “No dottore, devo farlo subito”. Dopo una settimana feci l’intervento. Ero uno dei difensori più forti della Serie A. Volevo vincere il campionato con la Roma e conquistare la Nazionale. In poco tempo mi ritrovai su un letto d’ospedale con un tumore in testa. Dovevo imparare a vivere di nuovo. Vivere una vita diversa e combattere con un malessere che piano piano nasceva in me. Ho fatto di tutto per tornare al mio livello. Tutto. Non è stato possibile. Ma sono ancora qui.

Il ritorno in campo

E poi c’erano gli sguardi di chi mi stava vicino. Li percepivo, li vedevo, li sentivo. Mi percepivano come qualcuno di diverso da loro. Mi trattavano come un malato. C’era un senso di compassione e protezione nei loro occhi. Ma io stavo bene. Un giorno Paredes calciò e mi colpì in testa. Tutti corsero da me preoccupati. “Ma che pensate? Pensate che sono ancora malato?”. Piangevo. Piangevo spesso mentre tornavo a casa. Per quegli sguardi, per non accettare la mia situazione, per l’idea che non sarei più tornato a essere… me stesso. Mi fece male anche quella volta a Verona. In panchina c’era Spalletti. Mi chiamò nel suo ufficio. “Voglio che torni a essere il vecchio Leandro Castan. Come facciamo?”. “Ho bisogno di giocare”. “Te la senti di farlo la prossima contro l’Hellas?”. “Sì, ma ho bisogno di qualche partita”. “Tranquillo”.

Sul futuro

Per anni non sono mai riuscito a fare pace con me stesso. Qualcosa è cambiato dopo aver parlato con una psicologa. “Qual è il tuo sogno Leandro?”. “Fare almeno una partita al mio livello”. “Non potrai farlo, mai più. Ora sei un nuovo Leandro, lascia andare quello passato”. Lascia andare. Quelle parole mi aiutarono a voltare pagina. Le sue e quelle di un pastore: “Un uomo senza sogno è un uomo morto”. Mi fece riflettere. “Ma che sogno ho adesso? Non posso più tornare indietro. Devo andare avanti”. Da quel momento la mia visione è cambiata. La mia storia con il calcio non era e non è finita. Ho ancora tanto da dare. Un punto definitivo su quello che è successo non sono mai riuscito a metterlo. Lo accetto, ma non del tutto. Mi ha fatto troppo male.

Ora sto facendo il corso da allenatore. Mi piace stare in campo, sentire l’odore dell’erba, entrare in contatto con i ragazzi. Non è ancora finito il mio momento. C’è un’altra vita nel calcio per Leandro Castan. Continuo a sognare. Se un uomo senza sogni è un uomo morto, io sono vivo. Vivo davvero. E posso dirmi di aver vinto questa sfida. Solo io so quello che ho passato. Paure, dubbi, caos. Ora sono qua in Brasile, ho una famiglia, vedo crescere i miei figli. A volte mi chiedono della mia storia. Tra qualche mese li porterò a Roma. In quelle strade dirò loro chi è stato il loro papà. Un bambino di Jaù che ce l’ha fatta. Nonostante tutto.

 

 

 

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