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L'analisi di Roma-Lazio

Adattamento e bellezza: tutto si fa per De Rossi

Lazio battuta con la forza del gioco e capacità di soffrire. Il gruppo è compatto e le potenzialità non tutte espresse: ora vogliamo la favola

Daniele De Rossi esulta a fine derby

Daniele De Rossi esulta a fine derby (GETTY IMAGES)

08 Aprile 2024 - 08:47

Non servivano i numeri per testimoniare la limpidezza del successo della Roma nel derby di sabato sera, ma nel caso in cui qualcuno avesse avuto dei dubbi se li sarà tolti facilmente leggendo le statistiche. Non inganni neanche quella leggera superiorità della Lazio nel possesso palla finale, dovuta alla scelta deliberata di De Rossi di difendere nella parte finale della partita, negli ultimi 20 minuti, quando le percentuali di dominio del pallone sono drasticamente cambiate. Nei 70 minuti che hanno indirizzato la partita c’è stata invece una squadra che attaccava e un’altra che si difendeva e ripartiva, come scelta strategica predefinita. Il piano di Tudor non sembrava neanche così campato per aria, ma semplicemente per funzionare avrebbe avuto bisogno di un numero di errori maggiore rispetto a quelli realmente commessi dai romanisti. Non è un caso, infatti, che l’unica occasione vera della partita della Lazio sia stata il tiro di Immobile nel primo tempo, dopo un clamoroso errore (l’unico) commesso da Mancini nel corso della partita. L’unico tiro in porta statisticamente rilevato è arrivato invece nel secondo tempo, una sorta di passaggio a Svilar da parte del Tati Castellanos. Né la superiorità sul numero dei calci d’angolo ha portato alcun vantaggio alla Lazio. È stata la Roma, semmai, a sfruttare uno dei suoi tre corner conquistati (tutti nel primo tempo) per portare a casa i tre punti.

Il gioco fluido di De Rossi

Tatticamente è stata una partita moderna, con i sistemi di gioco fluidi e non facilmente riconoscibili, e attacchi piuttosto sterili. Lo schieramento della Lazio ha obbligato De Rossi ad adattare il proprio sistema di gioco (un 433 di sua natura già piuttosto asimmetrico, per via del mancato apporto difensivo di Dybala), ad una contrapposizione efficace che rischiava di lasciare qualche spazio di troppo nella propria metà campo. Così Cristante era costretto spesso ad uscire su Gila (teorico terzo di difesa laziale, a volte incursore di fascia sinistra), ma quando non accadeva in occasione di veloci giri palla o altre situazione contestuali era addirittura Celik a doversi alzare tanto, obbligando di conseguenza Llorente (ecco perché è stato schierato lui a destra) ad occuparsi di Felipe Anderson, con Mancini a seguire Immobile, Paredes ad abbassarsi su Kamada e Angeliño a marcare Isaksen a uomo. Sacrifici a cui i giocatori della Roma si sono sottoposti volentieri, convinti dall’idea trasmessa dall’allenatore nonostante un paio di incertezze che nell’applicazione avrebbero potuto costar care. Perché quando qualcuno è superficiale nel palleggio, come è successo a Lecce, il rischio è di restare in inferiorità numerica sulle transizioni avversarie. Alla Roma servirebbe maggior dinamismo, di quelli che garantisce un Barella, ma non c’è ed allora l’unica soluzione è l’adattamento, almeno nella fase di non possesso. Poi, quando il pallone è tra i piedi, il gioco diventa fluido e armonioso e la bellezza indica la via: così l’impossibile (il piazzamento Champions e la prospettiva semifinale di Europa League) è diventato possibile.

Il baricentro più alto

Tornando al derby, la differenza nel primo tempo è stata l’altezza del baricentro. La Roma sembrava naturalmente portata a palleggiare nella metà campo avversaria e l’ha fatto per i primi 70 minuti senza trovare continui sbocchi per le conclusioni, ma infastidendo spesso e con regolarità Mandas con conclusioni non sempre incisive e in qualche caso goffamente deviate dai difensori. Ci sono stati curiosamente tre tentativi di autogol: uno di Casale su Llorente, un altro di Casale sul tiro di Pellegrini e uno di Gila su assist di El Shaarawy. La Roma è andata più volte al tiro e lo ha fatto anche in maniera più precisa. Bella anche l’esecuzione di Dybala del calcio d’angolo che ha portato al goal di Mancini su cui Romagnoli si è fatto una solenne dormita (e infatti Tudor l’ha tolto all’intervallo). La Roma ha così riscattato la prova assai opaca di Lecce dimostrando che quando la squadra si muove con la giusta forza, la determinazione migliore, l’attitudine al sacrificio, diventa assai più difficile per gli avversari andare così tante volte al tiro come è capitato pochi giorni prima in Puglia. Qual è la morale? Probabilmente sta nel fatto che nonostante lo spessore di squadra maturato in questi anni di finali di coppa raggiunte, la Roma non è ancora quella squadra in grado di vincere tutte le partite dominando, ma può farlo con le giuste accortezze e le opportune strategie, e ovviamente con il contributo della buona sorte, e se le capita un avversario più scarso tecnicamente che però mette in campo tutto l’ardore che non sempre i romanisti hanno da spendere allora si possono complicare anche partite apparentemente più comode da affrontare.

Le capacità di adattamento

Ma c’è un fatto indubitabile che è il vero tratto distintivo della Roma di De Rossi e rappresenta contemporaneamente un limite ma anche la cosa che fa più ben sperare per il futuro: una straordinaria capacità di adattamento che i giocatori hanno dimostrato passando dal gioco di Mourinho a quello di De Rossi, nonostante le enormi diversità. Perché è un limite? Perché a differenza di quello che impongono le grandissime squadre, il gioco della Roma in qualche misura “dipende” ancora dal gioco delle sue avversarie. Una forma tattica particolare in qualche modo incide sulla forma tattica che assume la Roma. E questo può portare in qualche partita a trovare delle difficoltà inattese che non sempre la squadra riesce a gestire con disinvoltura: basti pensare alle necessità di schierare la difesa a tre dall’inizio e ai relativi contrattempi emersi contro il Torino e contro la Fiorentina, o all’inedito 424 del primo tempo di Frosinone, ma anche al 442 con cui Gotti ha irretito De Rossi appena una settimana fa. Eppure proprio in questa adattabilità si nasconde la grande capacità della squadra matura che esce da quelle difficoltà dopo averle elaborate senza troppi danni e infila una serie di risultati positivi come quelli inanellati in campionato, vincendo otto partite su undici, pareggiandone due e costringendo l’Inter schiacciasassi (nell’unica persa) a terminare il primo tempo in svantaggio, cosa mai accaduta in questa stagione. Malleabilità dimostrata anche nell'ultimo derby: Angeliño bravo a districarsi tra la marcatura di Isaksen a quella di Pedro senza mai far mancare il sostegno offensivo, Llorente pronto ad uscire su Kamada o ad aprirsi su Felipe Anderson, Celik capace di alzarsi altissimo su Gila e a ripiegare su Anderson, Cristante abile ad intuire i tempi anche delle corse all’indietro a perdifiato, El Shaarawy che fa l’attaccante e a volte il terzino, Paredes che fa il regista e poi copre le spalle magari non sempre con la necessaria sollecitudine, ma con innegabile impegno.

È la Roma che aveva in testa De Rossi: non una squadra imbattibile, con le sue pecche e i suoi difetti, le sue incertezze e i suoi dubbi, ma una squadra compatta, forte, offensiva, unita e concentrata sugli obbietitivi. Il prossimo è giovedì, contro una squadra forte e in grandissima forma (sette vittorie consecutive). Ma ora vogliamo la favola.

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