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Amarcord

La Roma culla dello Zar: il primo autentico muro

Un solo anno per Vierchowod, fondamentale però nel secondo Scudetto. Unico difensore puro grazie all’intuizione di Liedholm, che sfrutta la sua proverbiale velocità

Pietro Vierchowod con Carlo Ancelotti il giorno del secondo tricolore, nel match col Torino

Pietro Vierchowod con Carlo Ancelotti il giorno del secondo tricolore, nel match col Torino

Mauro De Cesare
30 Settembre 2022 - 11:30

"Ricordi la Roma dello scudetto 1983?". «"go, Falcao, Bruno, bomber Pruzzo…". In fondo è perfino giusto parlare di quel trionfo e di uomini che hanno indossato la maglia giallorossa. Racconti da boomer, di chi ha superato gli “anta” almeno un paio di volte.
Ma ce n’è uno, di quei Campioni d’Italia, che ha giocato solo un campionato con la maglia della Roma. E che è stato decisivo non meno di Falcao, Ago o altri. Lui, lo Zar, Pietro Vierchowod. Solo la sua presenza al centro della difesa, fortissimo e capace di giocare per tre, permise al Barone, Nils Liedholm, di tirare fuori dal cappello magico, il “Tesoro” magico.

Quale? Dibba centrale di difesa, con compiti di impostazione. Ago, con il piede, faceva fare 60 metri al pallone: E Nils lo diceva sempre: "Il pallone può correre molto più velocemente di qualsiasi calciatore". E lo Zar, nel cuore della difesa ghiallorossa, correndo anche per Dibba, è stato il primo autentico muro: “The Wall”, prima ancora di Walter Samuel. Velocissimo (correva i cento metri in undici secondi), spigoloso, duro, appiccicoso, ma mai falloso o cattivo. La Roma dello scudetto giocava con Nela a destra, Maldera a sinistra, Pietro al centro: marcava a uomo da solo, o quasi. Capace di sopravvivere alle prime, rivoluzionarie idee zoniste. 

Di lui, in più di una intervista, ha parlato Bobo Vieri: "Non mi chiedete di Pietro. Uomo contro uomo era insuperabile. In velocità non vi dico. Ho giocato recentemente contro di lui a calcetto. Non è cambiato di una virgola, a 60 anni. Ti mette nell’angolo, anche con le unghie, ma non ti fa passare. Ricordo una sfida. Salas e io in contropiede, lui in mezzo. Indietreggia, poi lascia andare Salas e mi si tuffa addosso! Gli chiedo: "Ma il pallone lo aveva lui?". "Sì, ma tu con me non segni".

Un solo anno con la maglia giallorossa, perché in prestito, il suo primo scudetto vinto. E una carriera senza fine: smise a 41 anni, quando nessuno o quasi lo faceva. Fermato solo da problemi ai polmoni. "Ho giocato contro Boninsegna e Shevchenko". Il suo calcio attraversa Maradona e Platini, Van Basten e Ronaldo. Passa per Bettega, Pulici, Paolo Rossi, Altobelli, Pruzzo e Careca. Tocca Rummenigge, Batistuta, Weah e Zidane, sino a sfiorare Bobo Vieri e Pippo Inzaghi. Non fa classifiche, sono automatiche: "Maradona il numero uno, Van Basten il centravanti più grande". Due parole su Diego: "Che numeri! Una volta gli ero addosso, incollato. L’avevo, come si dice adesso, ingabbiato. Si è girato con una piroetta, un tunnel ed è volato via. Io allora sono scattato e l’ho raggiunto e chiuso in angolo e lui si è messo ridere: “Hanno ragione a dire che sei Hulk: ti manca soltanto la pelle di colore verde".

La sua avventura ad alti livelli comincia con la Roma del secondo scudetto. E chiude l’ultima pagina di quel primo capitolo.  Roma? "Un’altra realtà, un’altra dimensione, altri giocatori: Ancelotti, Falcao, Prohaska, Bruno Conti. E il Barone... Ci affascinava con i suoi racconti surreali. Liedholm era molto superstizioso. Sulle maglie, ad esempio. Non potevamo prenderle, doveva consegnarle lui. Una volta, l’ho strappata dal mucchio, tanto sapevo il numero. Mi ha guardato malissimo: “Se succede qualcosa la colpa è tua. Non farlo più, capito?” Un’altra volta mi metto, per sbaglio, il suo cappotto: nelle tasche c’era di tutto. Ma proprio di tutto: sale, ciondoli, amuleti, boccettine, cornetti. Uomo fine e ironico ma credeva a queste cose".
La Samp è stata la vita dello Zar. Ma la Roma la sua “baby sitter”.

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