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Falcão si racconta al Romanista: «De Rossi fondamentale, anni fa gli ho dato un consiglio»

L'intervista integrale al Divino: «In passato mi sono chiesto perché la Roma non mi chiamasse, mi arrivò un'offerta dalla Serie A»

Foto Proietti

Foto Proietti

17 Novembre 2017 - 10:54

Ricordo la confusione, la mano di mio padre che mi stringeva stretto (anche se avevo 13 anni mio padre era terrorizzato all'idea che potessi perdermi in quella folla, ne fece una conditio sine qua non: se non ti sta bene, torniamo a casa!), ricordo la sorpresa di dover parcheggiare lontanissimo perché tutti facevano così,davanti c'era un muro di macchine e oltre non si riusciva ad andare, ricordo che una volta arrivati conquistare le prime file era impossibile, si sgomitava tra la folla per andare avanti e mio padre proprio non ne voleva sapere, ricordo che lo ricattai perché odiava il mare e visto che faceva caldo gli dissi "oggi mi devi portare al mare, oppure andiamo a Fiumicino che arriva Falcão", e lui, laziale, virò su Falcão, pensando che solo noi avessimo avuto questa brillante idea e invece trovò diecimila brillanti come noi, ricordo che il caldo era forse lo stesso caldo di ogni agosto di oggi,ma allora si sentiva di meno perché praticamente non esisteva l'aria condizionata né in macchina né in aeroporto, eravamo arrivati tenendo i finestrini aperti, oggi chi lo fa?, ricordo che l'attesa fu snervante e quando arrivò il momento, il mio momento, un'onda d'urto spostò me e mio padre, ma almeno sopra le teste di tutti vidi passare un berrettino giallorosso di lana, mi dissero che sotto c'era Falcão, io non lo vidi, ma sapevo che era passato lì, a pochi metri. L'altro giorno a Milano è stata la seconda volta della mia vita in cui ce l'ho avuto tanto vicino.

Faceva caldo, quel 10 agosto 1980. Ma tu sbarcasti fresco come una rosa, con un pregevole abito con cravatta e ti misero subito in testa un berretto di lana della Roma.
«L'abito era di un mio amico sarto italiano che viveva in Brasile. Lui è stato il primo a cui ho chiesto di raccontarmi qualcosa di Roma. Cambiando paese la cosa che maggiormente volevo sapere era la mentalità della gente che avrei incontrato. In Brasile molte cose sono diverse».

La prima che ti viene in mente?
«In Brasile andare al night per un giocatore non è un problema. Magari non ad ubriacarti la sera prima della partita. Io in Brasile andavo sempre in un locale per cenare, era anche un night e spesso restavo lì, era l'unico posto dove si potesse cenare e far tardi. Già questa era una differenza. Questa ovviamente non è una cosa che mi ha detto lui, l'ho capito io».

Lui che diceva?
«Lui mi ha detto solo: "Roma è una città difficile". Perché, che cosa è facile?, gli chiesi io. E lui: "perché a Roma non si vince da tanto tempo". E io: meglio. Se sei abituato a vincere non ti perdonano niente. Ma se non vinci mai la tifoseria è più calma. Avremo tempo per lavorare e vedrai che vinceremo, conclusi.Oggi forse è diverso,oggi la tifoseria della Roma è più esigente».

La colpa è soprattutto tua. Sei tu che hai definitivamente cambiato questa mentalità.
«Diciamo che è nostra, di chi è stato alla Roma e ha lavorato bene. Non potrò mai dimenticare quella scritta: "La Roma non si discute, si ama". In Brasile è impensabile. Qui se perdi si discute eccome».

Ormai non vale più neanche qui. Allora come fu?
«Alla prima intervista, prima di vedere la squadra a Parma, incontrai dei giornalisti e mi intervistarono, alla domande sugli obiettivi ho risposto che avremmo dovuto vincere lo scudetto. Finita l'intervista mi sono messo un po' in disparte con dei giornalisti brasiliani, i corrispondenti in Italia delle maggiori testate brasiliane e a loro chiesi "Beh, come sono andato con i vostri colleghi italiani?". E uno di loro, Araujo Neto, rispose convinto: "Fantastico, bravo. Solo una cosa: potevi evitare di dire che vincerete lo scudetto". E io? "Scommettiamo un churrasco?". "Ok". Dopo tre anni ha pagato».

Che sorpresa hai avuto quel 10 agosto, sbarcando a Fiumicino?
«Totale. Ero convinto che non avrei trovato neanche un tifoso, magari qualche giornalista. Invece è accaduto l'incredibile. Migliaia di tifosi che hanno paralizzato l'aeroporto ».

Arrivava Falcão...
«No, arrivava la speranza. Ero uno che poteva cambiare qualcosa».

Torniamo sul concetto di eleganza, tu hai tramutato l'eleganza in qualcosa di concreto sul campo.
«È la mia mentalità. A me dà fastidio vedere anche un giocatore che sputa. Sarà che in Brasile era vietato bere durante le partite, quindi la saliva era importante. Io all'inizio in Brasile per garantirmi un po' di saliva masticavo l'erba del campo, poi ho scoperto l'importanza delle gomme e ho cominciato a masticare gomme, per non sentire sete. Io poi parlavo parecchio quando giocavo ».

È sempre stato un tuo tratto caratteristico l'eleganza.
«Andai in Francia per un torneo a 18 anni con la nazionale brasiliana. Alla cerimonia finale consegnavano i premi, io ero lì con la squadra. Mi sentii chiamare dal presentatore e non capivo il perché. Poi sulla targa-premio ho scoperto il motivo: "Al giocatore più elegante del torneo". Quei metri percorsi per andarlo a ritirare mi imbarazzarono, la gente si alzò tutta in piedi per applaudirmi. I francesi hanno la cultura dell'eleganza. E gli italiani, certo».

Anche il meraviglioso gesto minimalista di tirarti su la manica della maglietta mentre esulti per il gol appena segnato al Pisa, anno domini 1982-83, è un piccolo trattato di eleganza.
«Ma quello fu un gesto istintivo, non ricercato. E grazie all'analisi ho capito anche che cosa rappresentava. Sono quasi vent'anni che vado in analisi. E ripensando a quel che è accaduto quel giorno, è stata come una liberazione. Mi sono tirato su la manica per liberarmi: lo scudetto è nostro».

Giuseppe Manfridi ci ha scritto una splendida opera teatrale su quella partita soffermandosi molto su quel gesto. Il titolo è Pisa-Roma 1-2.
«Non lo sapevo. Vorrei vederla. Quella fu una partita che cominciò sette giorni prima, con la Juventus. Nel film viene raccontato bene quel che accadde, con la mia improvvisa decisione di andare in tv a scuotere l'ambiente dopo la sconfitta con la Juve. Per la città ormai avevamo perso. E io dissi: la Juve vince se noi perdiamo, siamo avanti...».

Venti anni di analisi che cosa ti hanno fatto scoprire di te che non conoscessi già?
«Ti aiuta moltissimo a capire meglio le cose che fai. Non è che cambi il tuo carattere. Ma capisci più di te stesso ».

Ma tu sei sempre stato il prototipo del giocatore dominante, che tiene il controllo.
«Nel calcio, nella vita magari è meno facile. Perché nel campo dipende tutto da te. Ero io l'organizzatore. Dovevo seguire quello che diceva Liedholm e poi cercare di cambiare se quello che aveva pensato lui in campo non succedeva. Avevo la sua delega per cambiare. Nell'analisi sono riuscito anche a capire che è inutile cercare di avere controllo di quello che non dipende da te ».

Qual è la prima cosa che come allenatore dici alla tua nuova squadra?
«Dipende dal momento. Ho avuto diverse fasi da allenatore. Allo Sport Recife, ad esempio, sono arrivato in una squadra forte che però nelle ultime tredici partite aveva totalizzato cinque sconfitte, sette pareggi e una sola vittoria. A me interessava capire come stessero fisicamente, ho chiamato Paulo Paixão, famoso preparatore, e li abbiamo subito messi a posto, si sono sentiti protetti. Le parole contano poco. Tatticamente spiego quello che voglio in aula, poi vado in campo e a uno a uno li metto a fare l'allenatore al mio posto: se ha capito quello che gli ho spiegato prima, ora è lui a dovermelo spiegare. Lavoro molto sulla testa dei giocatori. L'Internacional di Porto Alegre mi ha cacciato dopo cinque partite, invece, ma è stato uno scandalo: ero appena riuscito a capire la squadra, avevo appena raggiunto le teste dei giocatori. Certi dirigenti in Brasile pensano che il calcio sia magia. In Brasile hanno mandato via 22 allenatori, è una follia».

Che sistema di gioco ami?
«Se posso scegliere, mi piace il 4-2-3-1, dalla base del 4-4-2. Ma mi adatto. Ho fatto anche 3-5-2 e 3-4-3».

Tu saresti dovuto diventare Guardiola anche prima di Guardiola. La tua mente, i tuoi gesti, il tuo calcio, tu dovevi essere Guardiola come allenatore.
«Forse perché lui ha cominciato dal Barcellona?».

Tu dalla Nazionale Brasiliana...
«Io ho voluto cominciare così, con la Nazionale. Me lo sentivo che sarebbe accaduto ed è accaduto».

Esattamente dieci anni dopo il tuo arrivo a Fiumicino: agosto 1990.
«I giocatori all'epoca giocavano per l'80-90% all'estero. Ma all'inizio chiamai solo i giocatori del campionato brasiliano, da agosto a dicembre. Poi a gennaio volevo cominciare a lavorare sulla Coppa America chiamando anche gli altri, quelli di fuori. Così sono usciti Cafu, Marcio Santos, Mauro Silva, Leonardo, altrimenti non avrebbero trovato spazio in Nazionale. Fu un lavoro fantastico. Siamo andati in Coppa America con Taffarel, che giocava nel Parma, Mazinho, che giocava nella Fiorentina, Branco, che giocava nel Brescia, e Joao Paulo, che giocava nel Pisa. Invece Julio Cesar aveva problemi al ginocchio e Romario volle fare una vacanza perché non ne faceva da tre anni: arrivammo secondi in quella Coppa America. Perdemmo con l'Argentina 3-2, ma fu un grande torneo. Con la Colombia feci marcare a uomo Valderrama, passava tutto da lui, così li fermai. Poi arrivarono tre-quattro raccomandazioni dalla Federcalcio, dovevo chiamare dei giocatori che dicevano loro, e volevano anche il diritto di veto direttamente dal presidente. Allora andai via. In Messico, all'America. Feci giocare molti giovani, mi è sempre piaciuto lanciare i ragazzi. Siamo arrivati fino alla semifinale. L'anno dopo alla finale della Concacaf. Ma sono andato via prima. Ho lavorato tre mesi all'Inter di Porto Alegre, poi ho accettato l'offerta della Nazionale Giapponese, ma non sono arrivato a qualificarmi per gli Stati Uniti. Poi mi sono fermato per fare il commentatore e poi ho ripreso solo nel 2011. Sono tornato all'Inter e abbiamo vinto il campionato Gaùcho, poi al Bahia rivinto il campionato regionale e siamo arrivati tra le migliori otto di tutto il Brasile, poi lo Sport Recife, dove abbiamo fatto il record di punti della storia della squadra».

Mai in Europa, perché?
«Dell'offerta di Viola ho parlato spesso. Ma poi morì. L'unico che mi fece un'altra proposta fu il figlio del presidente Mantovani, per allenare la Sampdoria, nel 1996. Ma non mi convinse l'offerta economica per due anni. Il direttore era Emiliano Salvarezza, mi voleva».

E la Roma, a parte Viola, mai.
«È strano, è vero. Non parlo certo di adesso, visto che le cose vanno benissimo. Ma in passato me lo sono chiesto. Galvão Bueno, un mio amico brasiliano, me lo diceva sempre. Lui viveva in Europa. Seguiva il campionato italiano. Come è possibile che la Roma non pensi mai a te?, mi diceva. E io: "Me lo chiedo anche io, ma è così, inutile pensarci". La gente mi chiedeva in Brasile: "Ma con la tua storia alla Roma non ti hanno mai chiamato? ". Mi prendevano pure in giro: "Allora non è vero che per loro sei stato così importante"». Forse facevi ombra? «Ma sotto l'ombra si sta bene. Sarei stato accogliente».

Hai idoli?
«Federer, i Beatles, Pelè».

Federer è un po' il Falcão del tennis.
«È uno che non fa mai le cose normali. Amo gli sportivi così. Gli artisti così. Lui è differente da tutti».

Nel calcio Pelè?
«Il giorno dei suoi 50 anni, allenavo la Nazionale Brasiliana, l'ho visto sul campo, era il più forte di tutti ancora a 50 anni».

E nel calcio di oggi?
«Messi. Non ha rivali».

E un altro Falcão?
«Giudicarsi da solo è difficile. Senza fare paragoni, uno dei migliori è Iniesta».

Ci sta tutto.
«Forse lui non ha una capacità che mi riconosco. Quella di difendere in porta e poi segnare nella porta opposta».

Come in quel Roma-Bologna.
«Mi ero accorto che i difensori salivano mentre Dossena stava per lanciare. Allora feci una corsa contraria ai miei compagni e salvai il gol».

Franco Baldini era l'autore del tiro.
«Già. E poi ripresi l'azione. E andai a segnare».

Come nell'occasione del gol alla Fiorentina.
«Se devi sintetizzare la mia carriera puoi vedere quell'azione culminata con il tacco a Pruzzo. Ma tutta l'azione però. Nel film si vede».

Quando hai giocato l'ultima volta?
«In occasione degli ottanta anni della Roma. Dieci anni fa. Con De Rossi a centrocampo. Prima della partita gli chiesi come ci saremmo messi in campo. Lui, sereno: "Mi dica lei"».

Strepitoso, "mi dica lei". Che ne pensi di Daniele?
«Giocatore fondamentale. Non sbaglia un passaggio, sta sempre al posto giusto. Tanti anni fa ci parlai, lo incontrai in un negozio di abbigliamento a Casal Palocco, lavoravo per la Globo, un'amica comune mi chiese di dargli un consiglio, io ero restio, ma lui insistette. Così gli dissi di evitare qualche fallo. Lui lo ha fatto, non certo perché gliel'ho detto io, chiaro. Ma è diventato fondamentale ».

Con Guardiola hai mai parlato?
«No, ma mi piace molto. È un altro che non fa cose comuni. C'è un aneddoto che mi inorgoglisce. Fu intervistato dopo la loro vittoria contro il Santos nella finale di Intercontinentale, 4-0. Gli chiesero un'intervista per il 35° anno di Italia-Brasile dell'82 perché alcuni giocatori brasiliani avevano indicato il suo Barcellona come la squadra più somigliante a quel Brasile. Dovevi vedere la sua faccia, emozionato come un bambino. E disse una frase che non dimentico: "Essere ricordato per questo per me è più importante di aver vinto le Coppe dei Campioni. La gente sbaglia quando pensa che vincere è alzare la Coppa. Vincere è molto di più di questo". Meraviglioso».

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