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Addio Sinisa

L’eterna lotta di Mihajlovic: la vita vissuta come una partita

Combattente da giocatore come da allenatore. Per e contro la Roma, in cui rimase due anni soli ma intensi. Fu un avversario feroce e fiero, ma mai vittorioso nei derby

Sinisa Mihajlovic

Sinisa Mihajlovic

Vittorio Cupi
17 Dicembre 2022 - 09:30

Il 2 ottobre 1994 la sua maglia della Sampdoria era ricoperta di sciarpe giallorosse. Non era ai livelli di Toninho Cerezo, che ad ogni apparizione da avversario all’Olimpico indossava la maglia della Roma sotto a quella blucerchiata, ma la scena di cui furono testimoni gli oltre 63 mila spettatori presenti all’Olimpico in occasione della prima partita di Sinisa Mihajlovic da avversario dice molto dell’intensità con cui “Miha” (era il suo soprannome) aveva vissuto i suoi due anni in giallorosso. Non giocava in quello stadio da Roma-Torino 2-0, 1° maggio 1994, e quel giorno in Curva Nord c’era uno striscione che diceva altrettanto e che rimase inascoltato: “Sinisa non si tocca”. Il rapporto con Carlo Mazzone non era decollato e quindi le strade si erano separate. Nessuno poteva sapere che poi sarebbero proseguite da acerrimi rivali, negli anni in cui Mihajlovic ha vestito la maglia della Lazio. 

A Roma lo aveva portato Vujadin Boskov, con cui aveva in comune le origini. Almeno in parte, perché il calciatore, nato a Vukovar, era di madre croata e padre serbo. L’allenatore era totalmente serbo. Entrambi nati in periodo di Jugoslavia unita e trovatisi insieme negli anni in cui si stava dividendo in maniera decisamente troppo cruenta. Calcisticamente, avevano in comune l’appartenenza al Vojvodina di Novi Sad, maglia che avevano vestito entrambi. Sinisa Mihajlovic, però, s’era imposto all’attenzione per la Coppa dei Campioni vinta nel 1991 con la Stella Rossa Belgrado nella finale di Bari contro l’Olympique Marsiglia. Quel giorno segnò uno dei calci di rigore, lui che era famoso per le punizioni. «Ne segno una su tre». Si presentò così, a Roma, nell’estate del 1992. Acquisto più costoso della breve era Ciarrapico. 16 miliardi, mai pagati per via dell’embargo imposto dalla Nato in seguito alla guerra in corso nella ex Jugoslavia.

L’inizio sembrò dargli ragione: prima partita ufficiale, Roma-Taranto di Coppa Italia, dopo 20 minuti gol su punizione. Segnò anche al ritorno, facendo intuire subito che, come per la squadra, proprio la Coppa Italia sarebbe stata la via migliore da seguire in un’annata balorda. Le difficoltà societarie, culminate nell’arresto del presidente Ciarrapico proprio nel giorno del ritorno dei quarti di finale di Coppa Uefa col Borussia Dortmund, avrebbero pesato non poco. Al Westfalenstadion la sconfitta per 2-0 comportò l’eliminazione e a nulla sarebbe valso il gol realizzato proprio da Mihajlovic all’andata, incredibilmente di destro, con l’abbraccio a uno dei compagni di squadra che più gli era stato vicino, cioè Tonino Tempestilli. In Coppa Italia la Roma arrivò in finale, anche grazie a una sua doppietta contro la Fiorentina, e nella rimonta sfiorata contro il Torino (5-2 al ritorno dopo lo 0-3 subito al Delle Alpi) ci fu anche un suo calcio di punizione. 

In tribuna, quel giorno, c’era Franco Sensi, che aveva appena rilevato la proprietà della Società insieme a Pietro Mezzaroma e che in pochi mesi si sarebbe preso anche l’altra mezza, diventando unico proprietario. Novità, grandi speranze, ma fu tutto più difficile di ciò che sembrava. Per la Roma e per Sinisa Mihajlovic, che non trovò il feeling con Carlo Mazzone e a cui un ottimo finale di stagione, che portò la squadra a sfiorare la qualificazione in Coppa Uefa, non bastò per guadagnarsi la conferma. «Sinisa non si tocca», chiedevano i tifosi, ma fu il primo ad essere toccato e a salutare, dopo 69 presenze e 7 gol, tutti nel primo anno. 

Dalla Sampdoria sarebbe poi passato alla Lazio, diventando uno dei più feroci rivali della Roma (ma senza mai vincere un derby, e facendosi parare un rigore da Antonioli quando stava per farlo) e dei romanisti, com’era logico che fosse per una persona che ha vissuto tutto nell’unico modo in cui sapeva farlo: al cento per cento. “La partita della vita”, s’intitola la sua biografia, e il titolo dice tutto. Per lui la vita è stata una partita. Se è finita, però, non vuol dire che sia stata persa. Non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta e lui l’ha sempre fatto. Per la Roma, contro la Roma, dal campo, dalla panchina. Proprio durante la sua carriera di allenatore, è tornato a incontrarsi con la prima squadra italiana che l’ha accolto. Ha prima litigato con Totti, perché Francesco non andò alla sua partita di addio, per poi riappacificarsi e tornare amici come prima. 

Fu lui, nel 1993, a dire a Boskov: «Fai entrare il ragazzino». E il 28 marzo 1993 il ragazzino entrò, a Brescia, dove la Roma stava vincendo 2-0 e uno dei due gol lo aveva realizzato proprio lui. Nel 2012 tornò a Trigoria per vedere gli allenamenti di Zeman e studiare il suo 4-3-3. «Che ci fai a casa mia?», gli disse Totti ridendo. «Io entro quando voglio qui», gli rispose lui, ridendo ancora di più e abbracciandolo. Come ha abbracciato Zeman pochi giorni fa, in occasione della presentazione della biografia del tecnico boemo. Viene voglia di abbracciarlo anche adesso, anche se non si può più.

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