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Roma-Lazio in Curva Sud: l'Urbe siamo noi

Due coreografie, una squadra, una città: l’ordine naturale delle cose. E quegli stendardi che hanno fatto sognare il gol di Perotti a migliaia di persone

Gianvittorio
19 Novembre 2017 - 12:00

L'ordine naturale delle cose. Come lo scorrere inesorabile di un tempo che ad un certo punto sembrava aver rallentato il suo incedere impietoso per rendere ancor più intimo e sofferto quell'amore. C'erano romanisti in preghiera, una smisurata preghiera collettiva e mani intrecciate ad altre mani e cuori dai battiti sospesi. Davanti ai loro occhi un lungo telo e delle aste e davanti ancora una porta, un dischetto e una sfera. Andavano incontro alla Roma anche se la Roma non potevano vederla, cantavano per lei mentre Perotti poggiava con dolcezza la sfera prima di una lenta rincorsa e la fine naturale della corsa di quel pallone. Nella rete, alle spalle dell'ultimo dei biancocelesti. Sotto la Sud. Non avevano bisogno di immagini quei romanisti a cui è stata meravigliosamente negata la possibilità di vedere il vantaggio, si scambiavano sguardi e trattenevano il fiato tra gola e polmoni. Bastava e avanzava, perché erano felici di non poter guardare.

Gol. Il boato. Dietro e davanti a loro una marea giallorossa, dentro di loro una mareggiata. C'erano romanisti in attesa di una rete e avevano il sorriso nonostante non potessero ammirarla la loro Roma. Perché loro in quel momento erano l'Urbe e l'Urbe era davanti a loro. L'ordine naturale delle cose è la Curva Sud alle prese con una coreografia e la Roma che segna sotto di lei mentre qualcuno non può vedere. Ma può esultare e poco importa. Di meglio d'altronde non c'è. Era iniziato tutto con un bacio del sole sullo stadio prima di lasciar spazio ad una serata di luci.

Quelle che non si possono spegnere come il ricordo di un ragazzo che dai gradoni più alti delle nuvole, in un luogo lontano, sarà stato impegnato a contrastare a colpi di canti e cori e battimani i tanti avversari che caddero romanamente. E mentre la Nord srotolava il suo omaggio dalla Sud erano applausi e ancora da tutti gli altri settori prima che l'ordine naturale riponesse quelle persone su piani separati, diametralmente opposti. E da dove poco prima erano passati gli undici uomini in giallorosso guidati da capitan De Rossi per caricarsi a vicenda, uno sventolio improvviso e a tutto spiano di bandierette gialle a dipingere quei rettangoli di plastica rossa retti da migliaia di braccia.

Quattro lettere, un nome, il simbolo di un'eterna sconfitta che travalica i confini di novanta minuti più sei di recupero. C'erano uomini e donne, giovani e anziani e bambini con le braccia doloranti e un amore incondizionato, così intimo da spingerli a tenere in alto i loro colori in barba ad ogni fatica. Con il sorriso sulle labbra mostravano al mondo i colori di Roma. Perché non è vero che le famiglie non vanno più all'Olimpico. La famiglia c'è sempre stata, c'è e ci sarà. Ed è una sola, ed è bellissima. Quelle decine di migliaia di sconosciuti che non hanno avuto neanche il tempo di metabolizzare, esultare, urlare con tutto il fiato che avevano in gola.

Perché dopo aver ribadito la loro appartenenza e mentre le lunghe aste venivano portate in spalla verso l'esterno, ecco un nuovo boato a squarciare il cielo. E pensare che non avrebbe dovuto giocare, che il Ninja non era in perfetta forma. Nainggolan, Nainggolan, Nainggolan. Scandito a gran voce e tutto intorno una danza euforica, tribale.

"Roma alè, forza Roma alè. Voglio solo star con te, voglio vincere e cantar per te". Non vedere, ma cantare. Non guardare, ma stare insieme. Un amore che non ha bisogno di ricevere, ma diventa intimo proprio nel suo dare incessante. E dopo tanto sbandare e incitare era appena giusto che la fortuna li aiutasse. Anzi, non fortuna ma l'ordine naturale delle cose. Come una vittoria della Roma contro la Lazio, due reti sotto la Curva Sud che in quel momento era l'Urbe e l'esultanza condivisa, i volti in estasi e gli occhi brillanti come una stella grande in fondo al cielo. Un sabato da sogno. L'incubo d'altronde è stato ampiamente spiegato da uno striscione esposto in Tribuna Tevere. Quello di svegliarsi in una domenica novembrina accorgendosi di non essere romanisti.

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