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VIDEO - A Sarajevo cercando Dzeko: gli amici e il primo allenatore raccontano il giovane Edin

Dal quartiere natale al camp di allenamento. La prima puntata del reportage sulle tracce del numero 9 che sta cambiando l'immagine della Bosnia: dalle bombe al calcio

13 Luglio 2018 - 11:18

Una salita. Per raggiungere la casa dove è cresciuto Dzeko, nel quartiere di Brijesce a Sarajevo, bisogna percorrere una salita. Un po' come è accaduto a Edin per tutta l'infanzia, rubata a lui e a tanti suoi amici dalla guerra civile e dai conflitti secessionisti che hanno straziato i Balcani dopo la dissoluzione della Jugoslavia negli Anni Novanta. Novanta come la paura, il terrore che tra il 1992 e il 1995, quando Dzeko era solo un bambino, ha assediato la Bosnia-Erzegovina, il paese natale dell'attaccante giallorosso. Quello che non ha mai voluto lasciare definitivamente e dove tornerà prima o poi a vivere. E che non ha mai tradito, nemmeno per ragioni di opportunità professionale, come quando era al Teplice e gli offrirono la cittadinanza ceca e una nazionale più "forte" in cui giocare. Sì, perché con la paura, la guerra, la sofferenza, si può convivere e, se si è (anche) fortunati, se ne può uscire vivi. E rafforzati. Sorridenti, accoglienti, pieni di sole, come le tante miss Sarajevo che passeggiano, velate o con gli shorts, per le vie del centro storico, tra un minareto e una croce cristiana, tra il fumo dei cevapcici appena cotti proveniente dalle kafane (i ristoranti locali tradizionali) e quello del narghilè che si può comodamente respirare bevendo birra. E come le interminabili montagne che cullano la Bosnia, rendendola rigida - per non dimenticare - in inverno, e si stagliano arrivando nel diamante-per-sempre che è la sua capitale.

Una maglia di Dzeko e una sciarpa in stile vintage per le vie di Sarajevo

Dijamant, proprio come il soprannome di Dzeko, mister Sarajevo. Che non solo è lo sportivo, ma «la personalità più popolare di tutta la Bosnia», racconta il pr, Jasmin Ligata, suo amico e collaboratore da sette anni. Che per hobby gioca a futsal e «a differenza di Dzeko» sa «segnare su rovesciata». Ridere. Sorridere. Accogliere. Così la nuova Bosnia ha superato il dramma della ricostruzione e un ruolo, Dzeko, per il quale è capitato anche che importanti politici si litigassero la maglia, ce l'ha avuto: «Nel dopoguerra quando mi chiedevano da dove venissi, dopo la mia risposta tutti facevano un riferimento alle bombe, alla distruzione. Adesso quando dici Bosnia, dici Dzeko. Ha cambiato la storia e l'immagine di questo Paese giovane e pieno di anime e culture».

Una stella

«Zvijezda» (una stella), risponde Jusuf Sehovic, l'allenatore di Dzeko allo Zeljeznicar, alla domanda: "Cosa rappresenta Edin nella sua vita e nella sua carriera?". Una stella, un talento: «Ha avuto sempre le buone maniere - ricorda il tecnico - e rimaneva sempre ad allenarsi di più degli altri. Era ambizioso voleva andare avanti a tutti i costi. È arrivato quando aveva 9 anni, nel 1994 non ci allenavamo in un campo grande, in quel momento serviva una nuova generazione di giocatori, dopo pochi mesi ho capito che aveva più talento degli altri, con quel fisico riusciva in ogni disciplina, e lo selezionai. Doveva lavorare molto, però, e si sacrificò. Durante la guerra andavamo ad allenarci e avevamo una grande passione per il calcio, ogni giorno non eravamo sicuri di essere vivi il giorno dopo, potevamo morire, ma eravamo sicuri di una cosa: andavamo ad allenarci». Tempi durissimi, in cui il pallone rimaneva una ragione di vita e aiutava a restare umani coloro che sopravvivevano: «Riuscimmo a superare molte difficoltà, anche grazie all'Italia, un Paese che ci ha aiutato molto durante la guerra - ricorda Sehovic -. Subito dopo andammo a giocare in Romagna un torneo, partimmo con i ragazzi su un grande bus. Ci chiedevano solo del conflitto, ci mostravano come accendere le luci, alludendo al fatto che da noi in molti casi non ne avevamo».

Gabriele Fasan assieme agli amici di Edin

Tutte le strade portano a Dzeko, uomo talmente semplice da risultare timido, o per meglio dire riservato. Casa, pallone e famiglia: «Per questo unisce - spiega Jasmin Ligata -, per questo la gente lo ama». E questo è l'importante. Ha la faccia di uno che non tradisce. Normale, per un ambasciatore Unicef. Serio e professionale, marito e padre, bomber e assist-man. Adesso, per la prima volta nella sua carriera, è anche testimonial della Telemach, provider bosniaco, e la sua faccia giganteggia nei cartelloni pubblicitari per tutta la nazione. «Troppo buono?», hanno detto di lui. «Macché, è competitivo ai massimi livelli in tutto, anche giocando tra amici - racconta Ligata -. "Rosicone"? Sì, esatto, è un rosicone. Ma non diventi Dzeko se non sei così, con i bambini si scioglie, li fa vincere sempre, è buono ed è sempre disponibile, anche se c'è un problema. Tutti devono avere una seconda possibilità, ma se sbagli la seconda volta ti cancella». Altro che troppo buono, allora: «Giusto e determinato - continua il pr di Dzeko -. Chi lo dice, per esempio Spalletti, forse è stato un ottimo psicologo per Edin, perché ogni punzecchiata rispondeva segnando». «È troppo gentile per il calcio, è un bravo ragazzo. Ma è una qualità, non un difetto, che si dedichi alla squadra. Sarebbe criticato se fosse troppo egoista», aggiunge Sehovic.

Sehovic con i giocatori dello Zeljeznicar

Casa dolce casa

Con Sarajevo Edin ha un rapporto simbiotico (dopo il Giappone ha passato le vacanze tra casa e il mare croato di Dubrovnik): «Non se n'è andato nemmeno per la guerra». «Torna in continuazione: lui con il corpo e con la testa è a Roma, ma col cuore è sempre qui. In Italia non può uscire per una passeggiata in centro per il calore dei tifosi, l'avrà fatto tre volte. Qui è diverso, per quanto sia popolarissimo, attira i ragazzi e i bambini. I fan comunque danno più fastidio a chi gli sta intorno che a lui... È sempre disponibile e senza limiti di tempo».

La scuola di Edin Dzeko

E a Sarajevo, uscendo un po' dal centro e andando a Ovest, verso l'Italia, c'è Otoka, il quartiere di palazzoni dove durante la guerra Dzeko con la famiglia si trasferì. A casa dei nonni. Più vicino allo stadio dello Zeljeznicar, Grbavica, che per raggiungerlo da Brijesce «ci mettevamo un'ora», racconta l'ex compagno di squadra Mirza Trbonja nel pub alle porte di Otoka dove Edin si ferma ancora con gli amici di sempre quando torna a casa: «Andavamo a scuola insieme allo Zeljeznicki skolski centar, io giocavo in porta e lui in attacco. Come Holly & Benji (ride, ndr)... Se io prendevo cinque gol, lui ne faceva sette e non c'erano problemi. Una volta, non veniva a scuola da una settimana e andai a casa sua per vedere come stava, nella sua stanza c'erano le divise da gioco in un angolo: mi disse che era andato ad allenarsi per la prima squadra. Erano le 18 e mi chiese se lo accompagnavo ad allenarsi, nonostante fosse malato voleva allenarsi due volte. Non ho più visto questa passione in nessun altro». Mirza si sente almeno una volta alla settimana con Edin, quando il numero 9 passa per la sua città, però, si incontrano sempre: «Abbiamo due bambine entrambi, oggi è una persona anche migliore di prima per noi. Questa è la sua qualità, è rimasto con i piedi per terra nonostante sia l'idolo di tantissimi. Se è una star a Roma, immaginate qui». Edin «è riuscito», come uomo e come professionista, è «è un miracolo bosniaco». Possono stare tranquilli papà Midhat, che l'ha sempre sostenuto nel suo talento, e mamma Belma, che anni prima aveva salvato Edin con il sesto senso delle madri da una granata esplosa in un campo di calcio di bambini, proibendo al figlio di uscire di casa, e che quando Edin andò in Inghilterra ed era diventato famoso si preoccupava delle persone che avrebbero frequentato il figlio, amici, ragazze, gente che avrebbe potuto sfruttare il suo «ragazzo sensibile».

Sehovic al campo dello ZeljezniCar ai tempi della guerra

La scelta giusta

Edinsensibile, ma che va sempre avanti per la sua strada, anche quando le cose non vanno benissimo. «Si è sempre e solo preoccupato del campo», anche quando le cose non s'erano messe nel verso giusto a Roma, non ha mai dato troppo peso alle critiche di alcuni tifosi, aveva la fiducia dei tecnici. Mica fessi. «E non è vero che lo chiamavano cloc (letteralmente e volgarmente "bastone" di quelli che si usano per bloccare le ruote delle macchine) per contestarlo quando stentò nelle prime stagioni con lo Zeljeznicar. Era un fatto legato all'aspetto fisico, visto che Edin era alto e magro», spiega Dino Muharemovic, anche lui ex compagno di squadra di Dzeko, allenato da Sehovic, che ha iniziato con l'attaccante nella Roma, «quando si giocava su campi di terra, non avevamo l'erba, ma se impari a giocare in quei campi, puoi giocare dappertutto. Il mio ricordo più bello? Quando nelle giovanili lui segnò quattro gol contro lo Sloboda e un derby (accesissimo, «come Roma-Lazio», assicurano) con l'FK Sarajevo (Dino segnò, Edin rimase a secco, ndr)».

Un articolo che parla di Dzeko ai tempi dello Zeljeznicar

Certamente Dzeko valeva e per emergere non c'era davvero altra scelta che andarsene: «In Bosnia non aveva molte opportunità per emergere - spiega Jasmin Ligata -. Talenti molti, ma strutture insufficienti». Andare in Repubblica Ceca, al Teplice (e all'Ustí nad Labem, poi), è stata la «scelta migliore che potesse fare, gli ha cambiato la vita», conferma Dino. Lo ha fatto brillare. Ha sempre avuto una stella propizia nelle sue decisioni, anche in quella - per cui è sicuramente stato combattuto fino all'ultimo - «di rimanere alla Roma e non andare al Chelsea», dicono tutti in coro, gli amici di Dzeko. «Al Wolfsburg Felix Magath (che per i romanisti era già felice di nome e di fatto, come ricordo, ndr) ha creduto in lui dopo il primo anno in cui, come sempre accade a Edin, si era adattato e gli ha insegnato a essere un soldato nel calcio», spiega Ligata.

Mirza, amico d'infanzia di Edin: stessa classe, stessa squadra

Tifosi di Edin

«La passione per Dzeko è fondamentale, non potrebbe giocare in posti dove non c'è calore», raccontano i suoi amici. Ora gli amici sono i suoi primi tifosi. Non è un segreto che da giovane Dzeko avesse una simpatia per il Milan: «Mi ricordo - racconta l'allenatore, Sehovic - quando i rossoneri chiesero informazioni su Edin, perché gli ricordava Schevchenko, che era un suo idolo. Nel 2008 in Coppa UEFA ci fu Milan-Wolfsburg, Sheva gli diede la sua maglia e la indossò subito».
«Edin è un uomo di squadra, a volte troppo - secondo l'amico Mirza -. Ricordo ad esempio una partita contro la Spagna e lui aveva la palla e poteva andare in porta e la passò, fu clamorosa quella azione. Con Totti avrebbe segnato anche di più. Se avessero giocato più stagioni insieme sarebbero stati meglio della coppia Totti-Batistuta».

Jusuf Sehovic con una copia de "Il Romanista"

E, da buoni amici, sono tutti divisi sul miglior gol, ma uniti sulla sue migliori stagioni, quelle in giallorosso: «Il gol più spettacolare è stato quello contro il Borussia Dortmund quando era al Wolsburg. Me li ricordo tutti. Potrei fare un film di tutti i gol in carriera...», dice Mirza. «L'ultima stagione alla Roma è stata molto buona, ma la migliore è stata quella con Spalletti. Il suo gol più bello è quello con il Chelsea in Champions League», dice Dino. «Ogni gol in carriera è il migliore, perché da lì impari e migliori», chiosa il mister Sehovic.

Dopo il calcio, il calcio

Dzeko ama Roma e l'Italia, il sole, ha giocato in Germania e in Inghilterra, ma è nel nostro Paese che si trova meglio. Qui ha avuto due figli, rimarrà ancora. Forse non per sempre, da buon figlio della Bosnia. Ma anche solo lontanamente il pensiero di cosa avverrà dopo il calcio deve aver sfiorato un professionista "quadrato" come lui. «Ogni tanto in passato ha detto "sono troppo calmo per fare l'allenatore", ma ora è diverso. È cresciuto. Capisce di tattica, soprattutto dopo gli anni in Italia», dice Ligata.

Dzeko è il quarto inginocchiato partendo da sinistra

«Se può finire la carriera un po' più indietro, come trequartista? È bravo negli assist e quindi potrebbe, già lo fa - è il parere del suo primo tecnico, Šehović -. Sul futuro, vorrei che prima vincesse qualcosa con la Roma e poi può andare in Spagna. Vorrei che finisse nella Liga spagnola, credo sia il suo calcio. Nella scorsa stagione ho pensato che la vittoria con il Barcellona fosse il punto più alto che poteva raggiungere. Resterà nel calcio sicuramente perché è la passione della sua vita. E potrà avere successo in qualsiasi ruolo. Come allenatore? Anche...». E avrebbe un buon consigliere. Quello che per primo ha visto quella stella che brilla in fondo al cuore di Edin Dzeko. Ma se soltanto per un attimo potesse averlo accanto, cosa gli direbbe ora? «Gli augurerei buona salute per lui e la famiglia di iniziare la stagione come ha finito l'ultima».

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