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Hall of Fame - Giuseppe Giannini, il grande Principe in mezzo ai due Re

Peppe, Capitano e tifoso in campo. Arrivato dopo Falcao e prima di Totti, stretto in un’epoca segnata da una Roma povera ma bella

Foto Proietti

Foto Proietti

25 Dicembre 2017 - 15:00

I calciatori stanno in campo. I tifosi stanno sugli spalti. Esistono però alcuni calciatori, pochi, pochissimi, in grado di annullare la distanza tra campo e tribune, tra squadra e tifosi. Non solo correndo sotto la curva con un gol, togliendosi la maglia, proprio a dire che in quel momento non è più un calciatore, ma uno di noi. Uno che esulta e soffre esattamente come noi. Uno come Giuseppe Giannini. «Domani non gioco, mi fa male il ginocchio. Tocca a te. Farai gol», gli disse Paulo Roberto Falcao. E lui il giorno dopo, a 20 anni, segnò il suo primo gol in Serie A in casa della Juventus. Prima del campione d'Italia 1983, lo aveva scoperto un campione d'Italia 1942, Naim Krieziu, all'Almas. La sua foto era nella stanza del futuro campione d'Italia 2001, Totti. Poteva andare al Milan a 14 anni ma per fortuna Giorgio Perinetti convinse Dino Viola a tirare fuori tanti soldi per tenerlo a Roma. Nella squadra della sua città, lui che era nato nel quartiere africano e che a 3 anni s'era spostato con la famiglia a Frattocchie. Liedholm l'aveva fatto esordire un po' troppo presto, a 17 anni, e non andò bene. Ma poi l'ha fatto esplodere, inventandolo addirittura goleador da 11 gol nel campionato 1987-88. «Solo Rivera era più svelto di lui nell'imparare», diceva il Barone. «Nel mio primo anno a Roma, stagione 1987-88, le cose non sono andate bene per me. Peppe in quell'anno, che è stato il suo migliore, ha fatto tanti gol. Io correvo per lui. Ha giocato alla grande». Parola di Rudi Voeller. «È stato un compagno di viaggio e di vita. Da quando eravamo giovanissimi fino a un certo punto della carriera, poi ci siamo divisi ma siamo rimasti amici». Parola di Stefano Desideri. «Lui mi ha dato molto. La disponibilità. Era il capitano. Per me arrivare nella mia città, nella mia squadra, non era semplice. È stato un punto di riferimento importante. Si è sempre comportato bene. Ho apprezzato molto l'uomo, un ragazzo eccezionale. Sentivo la stima nei miei confronti, che era la stessa che io avevo per lui». Parola di Carlo Mazzone. «L'ho visto nascere. Arrivava dal settore giovanile, si è inserito alla grande. Ci siamo lasciati solo nel 1990, quando sono andato al Torino. Poi l'ho ritrovato perché sono stato collaboratore di Boskov e Mazzone. Lo conosco come le mie tasche». Parola di Franco Tancredi. «Ero il rigorista e sono andato sul pallone. Nessuna responsabilità ai miei compagni o all'allenatore». Parola di Giuseppe Giannini, che non ebbe problemi a presentarsi in sala stampa, dopo aver sbagliato un calcio di rigore al derby. Capitano.

Si ricordano spesso sempre gli stessi episodi, quelli che hanno caratterizzato la sua carriera. I due gol nel derby, uno dei quali, in particolare, al Flaminio, bellisssimo, di testa, a scacciare via l'incubo di una sconfitta. Le 49 presenze e i 6 gol con la maglia della Nazionale, nessun romanista aveva mai fatto meglio prima di lui e solo Totti e De Rossi fecero meglio dopo di lui. Un Europeo Under 16 vinto, un secondo posto nell'Europeo Under 21 (con gol nella finale di andata a Roma e rigore sbagliato nella finale di ritorno in Spagna), un terzo posto agli Europei del 1988 e ai Mondiali del 1990. Il "tre" sotto la Sud alla fine di un derby vinto 3-0 che ne valeva dieci e che giocò da campione. I tre rigori segnati nella finale di ritorno di Coppa Italia 1992-93 col Torino e l'urlo di dolore per quel palo che gli ha negato non solo il quarto gol, ma che ha negato alla Roma una coppa di cui parleremmo ancora oggi. Il gol a Foggia e il pianto liberatorio nel 1994, un gol che significava salvezza per la Roma. Quello allo Slavia Praga, al termine di una delle partite più belle della sua carriera, reso purtroppo inutile dalla distrazione di compagni di squadra cui, da capitano, si guardò bene dal dare la colpa. L'ammonizione a Firenze nella penultima giornata della stagione 1995-96 che gli impedì di giocare l'ultima partita all'Olimpico con la maglia della Roma, impedimento che purtroppo valse anche per la sua partita d'addio, interrotta da una rabbia che molti tifosi non capirono che era anche la sua.

Gli 11 gol nella stagione 1987-88, quando con 11 gol arrivavi terzo nella classifica cannonieri della Serie A, prodezze degne di un calciatore di classe cristallina, inspiegabili pause, corse sotto la curva, proteste, aperture per compagni di squadra che a volte erano bravissimi a sfruttarle, a volte non erano all'altezza. Lui, comunque, li ha sempre rappresentati tutti. Da capitano, appunto. Liedholm lo fece esordire prestissimo, poi lo tenne a bagnomaria per un po' e lo ripropose a grandi livelli anni dopo, quando comunque era stato Eriksson a lanciarlo titolare e a fargli conquistare la Nazionale. Forse l'ultima Nazionale cui tutta Italia ha voluto bene, quella di un gruppo che crebbe insieme, dall'Europeo Under 16 al Mondiale del 1990 e che aveva un tecnico che aveva fatto la trafila federale come Azeglio Vicini, che peraltro stravedeva per Giannini. Come stravedevano i suoi compagni. Vialli e Mancini lo volevano alla Sampdoria, Zenga e Bergomi lo volevano all'Inter, Milan e Juve lo volevano più di tutti e fecero anche offerte importanti. Niente da fare. Era nato nella Roma per restarci e lo fece nonostante i problemi con Ottavio Bianchi e quelli iniziali con Mazzone, poi trasformatisi in un grande rapporto di stima reciproca. Di Mazzone si ricorda spesso quando prese Pirlo e lo spostò 20 metri indietro per fare il regista. Operazione che però aveva già fatto anni prima proprio con Giannini, arretrando il suo raggio d'azione e facendogli vivere le sue ultime stagioni in giallorosso ad altissimi livelli.

Questo è stato il calciatore. Quello che più conta, però, è il romanista. Giuseppe Giannini è stato un grande romanista. S'è detto dei suoi gol al Derby. Restano, però, anche le sue reazioni al Derby. Quando segnava la Lazio, diventava matto. Non poteva accettarlo. Fu lui a consegnare ad Agostino Di Bartolomei, suo predecessore, la lettera che il Commando Ultrà Curva Sud aveva scritto per l'addio del capitano del secondo scudetto romanista. Fu lui a designare come suo erede Francesco Totti. «Il Principe – disse proprio Totti - è stato il mio idolo, il mio modello quand'ero piccolo. Ho sempre seguito le sue orme pur avendo due ruoli differenti. Lo identificavo come capitano, come tutto. L'ho conosciuto, ci ho giocato insieme, ci ho dormito insieme nella stessa stanza. Mi ha insegnato tanto». La sua sfortuna è stata solo quella di venire prima di Totti e dopo Di Bartolomei e Falcao. La sua fortuna è stata quella di essere sempre riconosciuto dai tifosi come uno di loro. «Il tuo coraggio di tirarlo, il tuo dolore di sbagliarlo, il nostro amore per dimenticarlo», gli scrisse la Sud dopo il rigore sbagliato al derby. «Solo chi ama e chi soffre per la maglia ha il diritto di onorarla per sempre», gli scrisse la Sud in occasione di quel Roma-Inter che sarebbe dovuta essere la sua ultima partita e che si disputò con la maglia numero 10 sulle spalle di Totti. «L'ingresso nella Hall of Fame –ha detto in occasione della cerimonia del marzo 2014 - è un riconoscimento che mi lusinga e che accetto con grande entusiasmo. Sono davvero orgoglioso. Desidero ringraziare chi mi ha votato e considerato, questa è una delle cose più belle che mi siano successe. Con la Roma ho vissuto sempre tutto a cento all'ora. I momenti belli e quelli meno positivi, il gol al Foggia come il rigore sbagliato nel derby: momenti attraversati innanzitutto da tifoso, non soltanto da calciatore. Per me la Roma è sempre stata più una questione di cuore che di professione». Si è visto in ogni momento.

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