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RomAntica - Retroscena Di Stefano, la Saeta sfiorò la Roma

Stanco del suo esilio dorato in Colombia, il fuoriclasse argentno fu vicino a vestire la maglia giallorossa

24 Dicembre 2017 - 17:30

Il calcio è un gioco. «Naaaa»… Allora il calcio di una volta era un gioco. «Una volta quando?». Non saprei, 50 anni fa? «naaaa»… Il calcio è sempre stato un gioco orientato da grandi, immensi interessi economici. Un sistema delicato in cui pochi, pochissimi hanno detenuto un potere quasi assoluto, sovrano. Dal 1950 ad oggi in 67 tornei di serie A, in 54 occasioni il titolo di Campione d'Italia è finito alla Juventus, all'Inter o al Milan. A interrompere la staffetta: 2 volte la Roma, la Fiorentina, il Napoli e la Lazio e 1 volta il Cagliari, il Torino, la Sampdoria e il Verona. Poi fine dei giochi, in tutti i sensi. È come essere davanti a un portone sbarrato, gigantesco in cui le chiavi d'accesso sono costruite in serie, assieme alle serrature. Molto, molto, molto e ancora molto di rado queste chiavi scivolano, per avvenimenti misteriosi e inspiegabili dalle mani dei soliti noti e permettono a qualcuno di aprire la porta. È un evento talmente eccezionale che esiste la possibilità che una volta aperto il portone, questo rimanga spalancato per sempre, cambiando la storia di chi ha raccolto la chiave. Alla Roma questa occasione (capiterà ancora lo dice il suo nome) è capitata e l'ha lasciata andare via.

Questa è la storia. Il 1 novembre 1948 il calcio argentino entra in sciopero. Il sindacato dei calciatori, la FAA (Futbolistas Agremiados Argentinos), protesta contro l'assenza di un "salario" minimo per i lavoratori del pallone. L'adesione è altissima e l'impatto sul movimento calcistico (in un torneo dove Racing, Independiente e River Plate stavano lottando punto a punto) devastante. Nelle ultime cinque giornate della Primera División del 1948 i club mandano in campo le squadre giovanili e il problema ha ormai assunto una enorme rilevanza politica. Juan Domingo Perón, al potere dal 1946, è sempre riuscito ad evitare scioperi di massa e le sue politiche a favore «dello sport per il popolo» sono sempre state uno dei fiori all'occhiello del suo mandato. Il problema "va" risolto e in qualche modo si risolve. Nel maggio del 1949 viene concesso il tanto agognato salario minimo, ma, contestualmente, viene inserito anche un "mas simale" di 1500 pesos che fa storcere la bocca ai "campioni" argentini. Tra i più inquieti c'è la stella emergente del River Plate, Alfredo Di Stefano, detto la Saeta rubia (il fulmine biondo). L'attaccante, di 23 anni, ha trascinato la squadra al titolo vincendo il titolo di capocannoniere e chiede ed ottiene un incontro con Antonio Vespucio Liberti, presidente del club. Il massimo dirigente del River è figlio d'immigrati genovesi e anche Di Stefano ha sangue italiano da parte di padre. Ma la lingua che parlano non potrebbe essere più diversa. Il colloquio, secondo quanto raccontato dallo stesso fuoriclasse argentino fu il seguente. Di Stefano: «Ho ricevuto un'offerta dalla Colombia e se non migliorerà il mio contratto sono disposto a trasferirmi lì». Liberti: «Se ne può andare e se vuole, laggiù può anche morirci».

Detto, fatto. Il 4 agosto 1949, la Saeta rubia debutta con i Milionarios di Bogotà segnando due gol contro il Deportivo de Barranquilla. Inizia il periodo d'oro del calcio colombiano, con Di Stefano padrone assoluto della scena. Arrivato a Bogotà, Alfredo prende casa in una pensione familiare nel Barrio Teusaquillo, tredicesimo distretto della città. Grazie ad una traduzione di Silvia Levato, conosciamo qualcosa della sua vita lì: «Conduceva una vita molto tranquilla. A pranzo mangiava riso bianco, banane fritte, manioca e un piatto tipico della cucina locale, il "piquete". La sera si concedeva della birra "Bavaria", giocava a carte e usciva a ballare». Segna valanghe di gol e non si spreme neanche. Ma il tutto,all'incirca dopo un anno comincia ad assomigliare a un esilio dorato. Di Stefano ha nostalgia di un calcio più competitivo e gli capitava di parlarne con Aldo Savina, altro "italiano" emigrato in Colombia, "periodista" per Siglo e Diario Grafico. Il 23 dicembre 1949 a Roma si era aperto il Giubileo e Savina doveva partire per la città eterna per seguire l'evento e documentarlo. Presumibilmente, tra una birra e l'altra, il giornalista disse al suo amico calciatore: «E se dicessi alla dirigenza della squadra della Roma che sei disponibile ad andare a giocare lì? Roma è il centro del mondo, quest'anno c'è il Giubileo, arrivano pellegrini da qualsiasi nazione, uno come te avrebbe il giusto palcoscenico laggiù e diventeresti una stella ovunque». Di Stefano era incuriosito dalla prospettiva e autorizzò Savina ad offrirlo alla Roma, anche per una certa curiosità di conoscere quel paese lontano di cui aveva avuto vaghi echi nei discorsi paterni da bambino. Non si trattava di un'asta, ma una semplice richiesta d'ingaggio per mettere la maglia giallorossa sulle spalle di un calciatore di 24 anni che è stato, secondo Pelè, il più grande di tutti i tempi. Per spiegare ai più giovani quale fosse il talento di questo attaccante, può essere utile citare Mario Sconcerti: «Credo sia giusto da dire che per carisma assomigliava a Maradona, per stile totale e peso in campo a Valentino Mazzola, per senso del gol a Pelé, che fra questi era il più attaccante, quindi abbastanza laterale. Fantastico specialista, ma non uomo della squadra. Dovessi scegliere un giocatore attuale, direi che Totti gli assomiglia nel tiro improvviso, per tecnica, e per come si allarga sul campo». Per Gianni Brera, senza tanti ghirigori, Di Stefano era stato il più grande giocatore di tutti i tempi: «Più di Pelè».

"Quel" Di Stefano, forse, aspettò la risposta vicino ai telefoni dell'Hotel Embajador, vicino alla torre Colpatria, nei sonnolenti pomeriggi di ritiro della sua squadra. La proposta arrivò alla Roma. Questo lo sappiamo con certezza, perché fu lo stesso Di Stefano, alcuni anni dopo, a raccontarlo in una storia a puntate della sua vita pubblicata dal Calcio Illustrato. Con chi avvenne il contatto? In passato si è scritto che la richiesta era arrivata a Renato Sacerdoti e che il calciatore era stato scartato perché «troppo anziano». Sono fesserie. Non torna nulla. Di Stefano aveva 24 anni, lo abbiamo detto, e in quel momento (non abbiamo certezze ma la vicenda deve essersi consumata tra la fine di giugno e la prima metà del luglio 1950) presidente della Roma era Pier Carlo Restagno. E allora? Chi parlò con Savina? Non Restagno e neanche il Vice Presidente Evandro Meloni. Il contratto venne gestito da Armando Lugari. Questa è una certezza, perché Di Stefano ricordava il suo nome. Quali erano le condizioni richieste? Due anni di contratto: 15.000 dollari di premio d'ingaggio e uno stipendio mensile di 600 dollari. Anche sulle cifre non ci sono dubbi. Perché l'affare saltò? Probabilmente perché la trattativa per l'ingaggio del trio svedese (Nordahl, Andersson, Sundquist) era già avanzata e perché c'era un timore diffuso che Di Stefano avrebbe richiesto altri benefit che avrebbero fatto lievitare l'investimento. Nessuno poteva saperlo, ma questo fu un momento di svolta drammatico nella storia romanista. Di Stefano avrebbe completamente cambiato lo sviluppo della vicenda del club. Senza di lui la Roma caracollerà per l'unica volta nella sua storia in serie B, mentre arrivando nella capitale quello che sarebbe successo rimane dietro a una porta, aperta da una chiave che nessuno volle usare…

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