ASCOLTA LA RADIO RADIO  

RomAntica - L'ultima di Giacomino Losi: addio a Verona col giallo

L’inspiegabile antipatia che Helenio Herrera aveva per lui raggiunse il culmine dopo una sfida al Bentegodi

03 Febbraio 2018 - 10:19

La storia di una squadra di calcio è fatta di pagine gloriose ma anche amare. Occorre conoscerle tutte. Uno degli episodi più sconcertanti della nostra storia, che rimane ancora oggi una ferita aperta, è senza dubbio la gestione del finale di carriera di Giacomo Losi che, proprio a Verona, allo stadio Bentegodi, il 24 novembre 1968, contro l'Hellas, disputò la sua ultima partita in giallorosso. Lasciamo la parola allo stesso Losi, che ne ha ricostruito i contorni nello splendido volume biografico (a cura di Francesco Goccia e Valentina Cervelloni) del 2013: «Sinceramente non ho mai capito il vero motivo per cui Herrera ce l'avesse tanto con me, io sono sempre stato un giocatore che non si è mai risparmiato, in campo e fuori, quindi tutto questo è stato molto strano. Lui però era un tipo molto particolare, gli piaceva sempre avere l'attenzione puntata addosso e forse per questo non gli andavo tanto a genio. Ero uno che comunque, se c'era da dirgli una cosa, si faceva avanti, senza stare a fare giri strani. Quando è arrivato alla Roma i tifosi hanno organizzato qualche cena, per festeggiare, così come si è sempre fatto e andavamo io, lui e solamente un dirigente. Quando arrivavamo la gente veniva subito da me, chiedendomi una foto o un autografo, credo proprio che questa cosa lo facesse impazzire. Lui, il Mago, l'allenatore che voleva rivoluzionare il mondo, che veniva messo in secondo piano. Probabilmente questo aspetto non lo ha mai digerito (…). In tutta la mia lunga carriera agonistica, posso vantare un record che difficilmente verrà battuto. In quindici stagioni di serie A, non ho mai rimediato un cartellino rosso e ho preso una sola ammonizione, tra l'altro in occasione della mia ultima partita. Penso che tale record assuma ancora più significato e importanza in virtù del mio ruolo, perché essendo un difensore, magari avrei avuto anche maggiore possibilità di fare fallo. Per di più, la colpa maggiore della mia unica ammonizione, ce l'ha l'allenatore che di fatto ha interrotto la mia carriera, Helenio Herrera".

"Stavamo giocando a Verona e perdevamo 2-0. Loro, in attacco, avevano due centravanti, Bui e Traspedini, che erano molto forti fisicamente due veri e propri corazzieri. Herrera mi aveva messo a giocare da libero, con Santarini stopper e continuava a chiedere alla nostra squadra di andare avanti, di attaccare, creando però degli spazi enormi per le loro ripartenze e il più delle volte mi ritrovavo a dover fronteggiare da solo due giocatori veronesi. Ero costretto quindi ad intervenire un po' come capitava, a mettere giù una volta uno e una volta l'altro centravanti. Feci un paio d'entrate scomposte, poi, all'ennesima, su Bui, l'arbitro Motta di Monza si avvicinò e mi disse: "Giacomo mi dispiace ma devo ammonirti". Fu quella l'unica volta che ricevetti un cartellino giallo, ma non avrei mai immaginato che potesse essere anche la mia ultima partita da giocatore… Invece... Dopo la partita rientrai negli spogliatoi, Herrera ci disse: "Muy bien, muy bien, bravi, bravi". Io gli dissi: "Mi Mister, lei ci dice muy bien, però qui è la terza partita che perdiamo, così non vinciamo mai, che facciamo?". Lui, con fare tranquillo, mi rispose: "Non ti preoccupare, non ti preoccupare". Tornati a Roma, il martedì riprendemmo gli allenamenti preparando la partita con il Bologna. Come al solito nel fine settimana andammo in ritiro, mi ricordo a Grottaferrata, ai Castelli e lì, il sabato sera, appresi dal giornale "Momento Sera" che non avrei giocato. Il titolo infatti era: "Sorpresa! Losi fuori". Per carità, da giocatore accettavo la cosa, ogni allenatore è libero di fare le sue scelte, però avrei desiderato, visto il mio ruolo, di sapere dal mister la notizia e non di leggerla sul giornale. Invece, lui lo aveva detto ai giornalisti senza parlare con me. Il giorno dopo, prima di andare allo stadio e visto che continuava a non dirmi niente, fui io ad avvicinarmi ad Herrera e, con il giornale in mano, gli chiesi: "Mister, ma è vero quello che c'è scritto qui, non gioco? Perché se è così a me va bene, ma lei ha dichiarato a tutti che io sto male, che durante la settimana non mi sono allenato e questo non è vero. Lei mi ha spremuto, come tutti gli altri giocatori e io mi sono fatto trovare pronto, così come lo sono anche adesso". Mi rispose: "Non ti preoccupare di quello che c'è scritto, non è importante. Comunque tu oggi ti riposi, non giochi … Se vuoi te ne puoi anche andare a casa, tanto andresti solo in tribuna".

"Per me fu una pugnalata, un colpo al cuore, rimasi impietrito. Ma come potevo anche andare a casa, mi ero sempre dannato l'anima pur di farmi trovare sempre pronto, avevo sempre dato il 110% e adesso ricevevo questo trattamento. Dopo un po' chiamai mia moglie dicendole: "Guarda, torno a casa, non gioco e non vado neanche allo stadio a vedere la partita". Di lì in avanti, Herrera non mi fece più giocare una partita. Neanche le amichevoli contro le giovanili durante la settimana. Mi allenavo duramente, tiravo la carretta, però poi quando si doveva giocare undici contro undici, io ero sempre messo da parte. Addirittura, durante un allenamento, Salvori, in maniera involontaria mi colpì con i tacchetti e mi staccò un dito. Il massaggiatore Minaccioni, mi tamponò e mi mandò immediatamente in ospedale dove fui operato urgentemente dal dottor Gasperini, che fece una cosa perfetta e fortunatamente riuscì a ricucirmi. Dopo l'operazione nessuno della Società si è fatto sentire per sapere come fosse andata. Per me, capitano di lungo corso e innamorato di quella maglia, di quei colori che per tanti anni avevo difeso, fu una cosa tremenda. Per la seconda volta, dopo la famosa stagione con Busini, mi sentii tradito e abbandonato. Nei giorni successivi, Herrera parlò con la Società e li obbligò durante la seconda parte di stagione, visto che ero un tesserato e prendevo lo stipendio, a farmi andare in giro per l'Italia e fare l'osservatore. Una cosa incredibile e assurda, che ancora oggi mi fa star male. A fine anno vincemmo la Coppa Italia e venne organizzata una festa a casa del dirigente Scapigliati. La sera prima mi chiamò il presidente, il dottor Marchini, una persona splendida mi disse: "Giacomo, il mister ha detto che tu domani sera non devi venire alla festa e io non posso farci niente. Però ti voglio lo stesso premiare perché sei stato uno degli artefici di questo successo, anche se non hai giocato fino in fondo. Scusami se per domani non posso invitarti, ma vedrai che più avanti ti festeggeremo come meriti"».

Quel festeggiamento non arrivò mai. Il 12 febbraio 1969 (grazie a Massimo Germani che ci ha aiutato in questa opera di ricostruzione), Losi incontrò il presidente Marchini che gli prospettò la possibilità di divenire osservatore della Roma (per quella stagione), decisione che venne ufficializzata il 27 febbraio con la contestuale concessione della lista gratuita. Il 15 maggio, a Palestrina, in un'amichevole contro la squadra locale (risultato 4-1), a Giacomo venne "concesso" di giocare la sua gara d'addio alla Roma. Da notare che la partita venne fortemente voluta dal presidente del Palestrina, guarda caso l'Ingegner Dino Viola, che premiò Losi consegnandogli, prima dell'inizio del match, "un'anfora di bronzo". Losi saluterà i tifosi con un articolo pubblicato dal Corriere dello Sport il 14 giugno: «Cari amici, scuserete, innanzi tutto, la presunzione di questa mia lettera di addio, ma dopo 15 anni di fedeltà ai colori della Roma e di milizia sportiva nella Città che mi è cara, anche se devo sottrarre al conto l'ultima stagione, per me da dimenticare, mi sembrava ingeneroso andarmene via, senza avervi ringraziato tutti per quanta gioia e quante soddisfazioni avete regalato alla mia vita. Ho avuto, insomma, paura di questo silenzio caduto improvvisamente, tra noi, timore soprattutto di fare la figura dell'indifferente e dell'ingrato. Avrei voluto, è vero, salutarvi da sportivo, sul terreno di gioco, ma non mi è stato concesso. Avevo pensato di distaccarmi da voi in ben altro modo e la piccola festa di addio, così come l'avevo vagheggiata in mezzo a tutti i miei compagni di oggi e di ieri, avrebbe potuto, in questo momento, risultare del tutto inopportuna. Perciò è meglio lasciarci così. Sento comunque di dovervi tutto e di avervi restituito solo parte di ciò che mi è stato dato. Ma in questo qualcosa che ho reso, ho sempre cercato di mettere tutta la mia coscienza di atleta e di uomo, tutte le mie risorse, tutta la mia passione. Nel momento di abbandonare la maglia giallorossa, ma non i ricordi che sono e saranno parte stessa della mia vita, sento quindi dover esprimere a tutti i sentimenti della mia vita».

© RIPRODUZIONE RISERVATA