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Francesco Rocca, intervista esclusiva: «Nessuno mi toglie la Roma»

La prima parte dell'intervista di Tonino Cagnucci a Francesco Rocca

04 Ottobre 2017 - 06:30

Francesco Rocca è nato per correre e per giocare con la Roma. A 22 anni era il più forte di tutti poi s'è spezzato un ginocchio. Alla Roma non ha dato"solo" letteralmente una gamba (fa ghiaccio ancora oggi, fa ancora male la gamba oggi, tanto) ma la vita: «È come se avessero tagliato le corde vocali a uno che è nato per cantare. Poi ti rialzi ma è un'altra cosa». Rocca è la Roma. Punto. A un certo punto dice -senza cronologia,senza avvertimento -: «Io con la Roma c'ho fatto l'amore». Mai, mai, mai nessuno come Francesco Rocca ha saputo stare zitto parlando della Roma. È fuori dalla Roma da quasi 40 anni e non ha mai detto mezza parola contro. «Avevo un sogno e l'ho realizzato. Poi me l'hanno tolto. Ma un conto sono gli uomini, un altro la Roma, quella non me la portano via. Ce l'ho sin da bambino». Per la prima volta accetta di parlare di tutto questo.

Pure da ragazzino eri romanista?
«Sì, anche se a San Vito erano quasi tutti laziali, ma io ero della Roma. Anche grazie a un mio amico, Lorenzo, mio amico ancora oggi. Ma poi non lo so perché. Era così e basta. Io sono cresciuto della Roma»

Come? Il primo ricordo.
«Taccola. Ho seguito tutta la sua storia. Avevo 14 anni, feci sega a scuola per andare al funerale alla Basilica San Paolo. Piansi tantissimo. La gente era impressionante. Vidi i giocatori della Roma portare la bara. Vidi arrivare il pullman della Roma, dopo due anni stavo con loro. Il sogno mio».

La prima volta che l'hai visto?
«Ho scavalcato. Avevo i soldi solo per un ridotto ma ai cancelli non m'hanno fatto entrare perché ero troppo alto. "Sarai basso te" gli risposi. Vendetti il biglietto a un marinaio perché all'epoca i militari pagavano ridotto come i ragazzini. E scavalcai. Pareggiammo 1-1 con Bercellino e Santarini. Ma il gol di Santarini non l'ho visto».

Santarini l'hai visto presto come compagno di squadra.
«Stavo al Bettini Quadraro affiliato alla Juve. Quelli della Juve mi dissero che sarei diventato ciccione e lento. Capito? Io ero bravo tecnicamente, poi dopo è venuta fuori la potenza. Giocavo tornante. Ero ala. Numero 7. Giocavo sotto età con la Juniores. Fecero lo scambio, la Roma aveva in prestito il 50% del portiere Alessandrelli: "Voi vi tenete Rocca e noi ci teniamo Alessandrelli". Andai alla Roma. Avevo 17 anni. Immagina la gioia mia, ero tifoso della Roma, giocavo con la Roma... La sede al Circo Massimo con la mitica signora Parodi segretaria...Ero felice ».

Hai firmato lì il contratto?
«No, ma che contratto! Il cartellino m'hanno fatto. Il primo contratto da professionista l'ho firmato a 19 anni e non me ne fregava niente di quanto guadagnassi. Per me contava correre per la Roma».

L'esordio in A col Milan.
«Aspetta, prima la Primavera. Sai che era la Roma all'epoca? Cos'era la Primavera? C'erano diecimila persone a vederci al Tre Fontane. Santolamazza, Cavalieri, Peccenini, Sandreani, Di Bartolomei, Pellegrini (la recita tutta, ndi). Che tempi. Io volavo. Eravamo forti. C'era sempre il papà di Agostino fuori al Tre Fontane, il mio no (sorride, ndi), il mio era incazzato perché non ero andato a lavorare. Giustamente a quei tempi pensava: se lavori hai da mangiare, se giochi non si sa. La pensione per i giocatori è stata istituita nel '74. Ero felice».

La svolta?
«Quando Herrera venne al Tre Fontane. Veniva una volta al mese a vedere chi si meritava di andare in prima squadra. Faceva una partita apposta. Quel giorno era il momento, avevo sentito la svolta. Herrera fece in tempo a far esordire me e poi lo mandarono via. Poi arrivarono Trebiciani, Scopigno, Liedholm. E la Roma di Conti, Peccenini, Rocca... L'anno del terzo posto».

La tua Roma.
«La mia Roma. La Roma del passato, quella drammatica, viene dopo, ma non c'entra niente la Roma, l'amore per la Roma con quello che è accaduto dopo. L'amore per la Roma è a prescindere. Per la Roma, non per certe persone. La storia mia con la Roma è mia... Quegli anni. Sempre. L'Olimpico. Il sole. La gente. Il rumore che facevano nel riscaldamento. Le trasferte. La squadra. La maglia della Roma. L'amore e il sogno realizzato. Queste cose non le può cambiare nessun uomo, anche se sono 40 anni che non sto alla Roma e non so perché visto tutto il bene che le ho sempre voluto. La Roma è una cosa, certi uomini un'altra ancora. Quasi tutti con la Roma hanno fatto professionismo, io no».

E tu che hai fatto?
«Io ho fatto l'amore puro con la Roma. E aspetta...».

Impossibile muoversi.
«Io non ho preso tanti soldi. Per me i soldi venivano dopo. Per me era già un sogno giocare con la Roma. Nemmeno m'ero reso conto di quanto fossi diventato forte e importante visto che stavo in Nazionale. Ero l'unico romanista in Nazionale. Io non la vedevo come una professione. Non so se mi spiego. Anzalone mi disse: "tieni, firma in bianco metti la cifra che vuoi". Io misi una cifra così, ma non mi rendevo conto, non mi interessava niente, io avevo la gente. Avrei potuto chiedere tutto, mi voleva la Juventus. Ho ancora adesso un poster del Momento Sera in cui Anzalone dice: "Non cedo Rocca nemmeno per un miliardo", era il 1974. Guadagnavo niente rispetto a quella popolarità. Non ci pensavo».

C'era solo la Roma.
«Sì. La mia gioia si vedeva. Si vedeva quando giocavo. Io non vedevo l'ora che arrivasse domenica perché tu devi capire una cosa: la gente quando giocavo vedeva un altro spirito. Quando ti dicono "non sai Rocca cos'era", ti stanno raccontando solo quel sentimento. Era quello che vedevano. Io pensavo andasse avanti così tutta la vita...Avevo 22 anni».

E invece.
«E invece s'è sfasciato tutto».

È durato troppo poco
 «Tre anni».

L'infortunio una casualità
«No, perché Francesco Rocca andava gestito in modo diverso, perché Rocca aveva un potenziale agonistico che andava gestito con un'alimentazione diversa, con una preparazione diversa. Io all'epoca ero allievo, non maestro. Non è colpa di tuo figlio se gli dai da bere a 9 anni il whisky. Non puoi dirmi che io volevo andare in Nazionale, mi ci hanno mandato in Nazionale quella volta...».

Quella volta...
«Aspetta. Sono stato utilizzato troppo e male. Io mi ricordo che facevo gli allenamenti il giovedì, aprivano le porte e c'erano duemila tifosi, facevo praticamente u n'altra partita. Ho giocato al 60% delle potenzialità anche quando ero il più forte, perché il fisico mio è stato gestito male. L'unico che ha avuto un briciolo di professionalità è stato proprio Herrera perché ci controllava il peso, ci controllava l'alimentazione, però nell'allena - mento specifico anche lui difettava... Ma tutto questo, tutto quello di cui ti parlerò io l'ho capito dopo, quando è iniziato il calvario, quando ho dato via il ginocchio e la carriera alla Roma. Torniamo ancora alla Roma».

La Roma.
«La Roma è stata la mia vita. Nei miei primi tre anni ho fatto 88 partite su 90. Ne ho saltata una per una contrattura all'adduttore prima di un Roma-Ascoli. Pensa che quel giorno me lo ricordo bene: avevo appena finito l'allenamento, avevo lavorato tanto, forse troppo; dissi a Liedholm "mister posso fare un tiro", lo feci e m'infortunai. Non è stato un caso. Non avrei dovuto tirare ma fare defatigante. Un'altra volta l'ho saltata per squalifica. Tre anni avevo fatto il pieno sennò...Io ho sempre dato tutto ogni volta che ho indossato la maglia della Roma. Non ho mai fatto un ragionamento diverso. Giocavo per centomila persone. Giocavo per una passione. Giocavo e mi scaldavo con quella gente che faceva "brum" perché ero Kawasaki. Con l'infortunio poi tutte queste cose sono sparite. E sono spariti tutti quelli che mi avevano presentato, tutti quelli che mi avevano lodato. Non hanno risposto più, dopo quel momento»

L'infortunio.
«Col senno di poi, il crac al Tre Fontane è stata solo la fase finale. Io mi sono fatto male a Roma-Cesena. Era iniziata male la settimana con un pestone di un ragazzo nella partita del giovedì. Mi si gonfiò l'unghia e sentivo dolore, andai a Genova con una scarpa e una ciavatta letteralmente. Mentre mi scaldavo scalzo, perché il dito faceva malissimo a contatto con lo scarpino, il capitano del Genoa - Gigi Simoni – mi si avvicinò: "Francesco come fai a giocare? ". Io gioco. Dovevo marcare Damiani, il centravanti era Pruzzo. Mi dissero ti facciamo la puntura di Novocaina, ti addormenta il dito e non senti niente. Se il dottore dice così... Ero l'allievo, non il maestro. Addormentò il dito non l'unghia che premeva, giocai col dito ritratto. Era impossibile».

Come andò?
«Male. Oscar mi massacrò: 2-2, segnarono lui e Pruzzo. Tornai a Roma incazzato nero, i giornali avevano scritto che non ero il solito, che non avevo corso eccetera.. Se li abitui bene è peggio, se giochi sempre da 8 e una volta da 6 ti mettono 5. Anche per questo la partita dopo ero più carico di prima, anche perché – qui parliamo già di studio, di conoscenza - il giorno dopo un amico mi portò da un podologo che prese un ago bucò l'unghia, uscì il sangue e il dolore se ne andò. Era una cosa semplicissima, una cazzata. Stavo bene, mi preparai alla grande per il Cesena, "mo vi faccio vedere io" mi dicevo, "domenica faccio un macello". Ma col Cesena successe un altro macello».

L'infortunio.
«Prima mi ricordo una cosa di quel giorno, ci diedero la maglia nuova della Roma: era bellissima. Bellissima. Poi... Dopo una decina di minuti la palla andò fuori, andai per raccoglierla e "quello" da dietro non si fermò e mi diede un colpo».

Chi era?
«Lasciamo perdere. Non è importante. Non credo che l'abbia fatto apposta, era un contrasto di gioco anche se poteva fermarsi visto che la palla era andata fuori. Ricordo la botta sul polpaccio e la famosa puncicata sul ginocchio. Siccome ero rilassato i lmuscolo non mi ha bloccato il ginocchio. Presi la botta, ma giocai tutta la partita, erano passati solo 10', fui il migliore in campo».

Poi.
«Il giorno dopo ero convocato in Nazionale col Lussemburgo. Ma la sera quando tornai a casa a San Vito avevo il ginocchio gonfio e dolorante. Andai insieme a Lorenzo, quello della Roma, quello di San Vito, alla clinica ortopedica all'Università La Sapienza. C'erano il professor Perugia, Puddu, Mariani e Ferretti. Feci le visite, "questa è una b otta", disse Perugia "va' in Nazionale, ci penseranno loro". Andai in Nazionale ma non mi allenai perché era ancora gonfio, non mi faceva male ma dava fastidio. Il venerdì giocai, era la prima partita di qualificazione dei Mondiali di Argentina. Mi capitò l'unico professionista del Lussemburgo dalla mia parte anche per questo non attaccai, oltre al fatto che sentivo male e che dall'altro lato spingeva forte Tardelli. Vincemmo 4-1, le pagelle mi massacrarono però, "non era lui"».

Eri te ancora per poco...
«Me ne tornai a casa. Domenica e lunedì a San Vito, il martedì andai dalla fisioterapista, feci una cura che poi hanno scoperto fosse cancerogena. Sono entrato in campo al Tre Fontane a palleggiare con Lattanzi l'arbitro. Sono andato per anticipare un pallone e lì è finita la carriera. Svenni. Si sentì un rumore, una botta come si fosse rotto qualcosa. Ho una foto dove Minaccioni mi porta via a braccio. In quel momento è finita la mia storia da calciatore. Avevo il ginocchio bloccato. Normalmente quando il menisco fuoriesce dall'ambito della sua collocazione blocca l'articolazione. Tutti pensarono al menisco. Siccome se l'era fatto anche Peccenini, ricordo che aveva la gamba rigida ingessata. Quando mi svegliai però io avevo la gamba flessa.. Perché m'hanno ingessato così? Stavo ancora nel dormiveglia... Mi riaddormentai.. Poi ho capito».

Cosa?
«Che s'era rotto tutto: legamento crociato anteriore, collaterale, menisco, capsula articolare e cartilagine. Avrei dovuta finirla lì».

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