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Daniele De Rossi, Capitan tutto: con quel rigore hai ucciso il mainagioismo

A sedici anni di distanza dal suo esordio in Champions, nell'anniversario del 7-1 all'Old Trafford: un rigore da estasi pura, carico di significati

12 Aprile 2018 - 12:27

Sedici ani di distanza. Sedici anni (e rotti) dal giorno del suo esordio assoluto, anche quella volta in Champions. Allora De Rossi entrò contro l'Anderlecht, a venti minuti dalla fine. Era solo un giovane promettente. Sedici anni dopo è il veterano: Capitano, leader, anima della Roma. Sedici come il suo numero di maglia. E siccome tutto torna sempre, anche questa volta è stata la Champions il suo palcoscenico.

Nel completamento di una serata magica, la nemesi è passata anche dai suoi piedi. All'andata un eccesso di generosità gli aveva fatto spingere nella propria porta la palla del vantaggio del Barcellona. Avrebbe voluto anticipare Messi, gesto che gli è praticamente riuscito per tutti i restanti 179 minuti della doppia sfida. «Preferisco fare una partita coraggiosa, con gli attributi e sbagliare qualche intervento, piuttosto che farmela sotto quando affronto campioni simili», dirà una settimana più tardi, al termine dell'epica gara di ritorno. Eppure qualcuno era riuscito a infamarlo anche per quell'intervento. Come fosse stato doloso. Lui ha scrollato le spalle, poi le ha caricate del peso dell'intera squadra. Da Capitano vero. «Prima della partita ero quasi commosso dallo stadio pieno. Ho detto ai miei compagni: ci credono loro, non possiamo avere paura noi», ha rivelato a qualificazione ottenuta. Sempre all'insegna del coraggio. A parole come nei fatti.

Non ha avuto paura a presentarsi su quel dischetto nella sera del mito. Con un pallone da una tonnellata e tutto il carico di responsabilità che ne sarebbe derivato, a qualificazione ancora lontana come un miraggio. Ma Daniele non ha avuto un solo istante di esitazione. Non ce l'ha fatta neanche Ter Stegen con quel balletto lungo la linea a deconcentrarlo. Il suo è stato un tiro secco, nell'angolino, a suggellare il raddoppio e una speranza che con il passare dei minuti diventava sempre più tangibile. «Manca mezz'ora», rivolto ai suoi. Passando dall'alveo del sogno al confine del possibile.

Ben prima di valicare quello sbarramento, aveva suggellato una prestazione mastodontica con il cioccolatino per Dzeko: un lancio chilometrico sui piedi fatati di Edin, stop da urlo prima di fare secco il portiere blaugrana e andare a prendere la palla in fondo al sacco. Mancava ancora una quantità infinita di minuti, ma in quel gesto c'era tutta la voglia del gruppo. Di non accontentarsi di una vittoria di prestigio, di crederci. Proprio come i sessantamila sugli spalti. E come aveva detto il Capitano prima della gara, per spronare la propria ciurma. Messaggio recepito.

Contro il Barça è stata la partita della vita. Vera questa volta, senza alcun intento sopito dai fatti, magari nei minuti finali. È stata la debacle totale del mainagioismo, altro che del barcellonismo. La prova che nulla è impossibile, se esiste unità d'intenti. E un Capitano immenso a guidare il gruppo. Eppure, quante ne ha passate per vedersi riconosciuti i suoi meriti. Quante partite. Quante giocate. Giuste e sbagliate. Fino al capolavoro del 10 aprile, guidando la Roma all'impresa più importante degli ultimi 34 anni. A undici anni esatti dal tonfo di Old Trafford. Anche quel giorno un suo gol, tanto bello quanto struggente. Questa volta un rigore da estasi pura, carico di significati. Proprio come quello calciato da un altro Capitano senza paura, in un'altra rimonta leggendaria. Da Roma.

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