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Amarcord: Chievo-Roma, voglia di stringersi un po'

Il 16 maggio 2010 eravamo quasi in ventimila al Bentegodi di Verona per l'ultima trasferta libera prima della tessera del tifoso

09 Dicembre 2017 - 10:00

Al "Bentegodi" ci andammo perché spinti da un motore invisibile, quella stessa forza di cui parla Eduardo Galeano: l'utopia. Che si distingue dal sogno ingenuo, dalla speranza o dalla fede cieca. La base dell'utopia è la consapevolezza della sua irrealizzabilità. È, per dirla con le parole dello scrittore uruguagio, un orizzonte che non puoi raggiungere: «Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a farmi camminare».

Il 16 maggio 2010, a Verona, nell'ultima trasferta libera prima della tessera del tifoso, c'erano ventimila romanisti. E non c'erano solo perché speravano nello Scudetto, perché si sapeva che l'Inter avrebbe vinto. Ma vedere uno stadio lontano centinaia e centinaia di chilometri da Roma tinto di giallorosso, è già di per sé una ricompensa. Ricompensa di cosa, poi? La ricompensa presuppone un sacrificio, e non c'è sacrificio nel seguire l'amore. C'erano ventimila persone che volevano semplicemente sostenere la Roma, perché la passione deve sempre sventolare libera.

Al "Bentegodi" ci andammo per dimenticare il 25 aprile. Ci andammo per scacciare i fantasmi della Sampdoria, di Pazzini e di tutte le nostre paure che, d'improvviso, quella sera di primavera si realizzarono all'Olimpico. Una partita buttata nel cesso, questo fu. Il passo falso dopo una rimonta che sarebbe entrata nella storia, se solo l'esito fosse stato diverso. Vincevamo 1-0 dopo 45', e quanti ce ne eravamo mangiati! Ma quando l'arbitro fischiò la fine, era 1-2. Addio sogni di gloria.

Ecco perché andammo a Verona. Ci andammo per Julio Sergio che aveva parato il rigore a Floccari nel derby e che pochi mesi dopo sarebbe rimasto in campo in lacrime con un piede rotto. Ci andammo per Burdisso e Taddei. Ci andammo per Totti e De Rossi, figli di Roma, capitani e bandiere, le cui lacrime a fine gara furono le nostre. Andammo a Verona perché ce lo disse il cuore e non la testa. Ci andammo pur consapevoli che era un'utopia, non un sogno. Lo sapevamo che Milito avrebbe fatto gol, perché quell'anno faceva sempre gol – a parte quando ci si metteva di mezzo un palo sotto la Curva Nord in pieno recupero -, eppure quando Vucinic e De Rossi segnarono, Verona era Roma. E non ce ne voglia la Capitale. Eravamo a casa, perché casa nostra è dovunque c'è la Roma.

Il primo boato, quindi il secondo che fu colonna sonora perfetta per la bordata di Daniele: una botta rabbiosa e precisa come quella di Totti al 19' di una partita giocata il 17 giugno 2001. L'utopia s'andava quasi trasformando in sogno, ma sapevamo che non sarebbe accaduto. Questo è stato il fraintendimento di fondo: il resto d'Italia pensava che noi fossimo lì per vedere la Roma vincere lo Scudetto, noi invece eravamo lì prima di tutto per vedere la Roma. La differenza tra queste due frasi è grande come quella che esiste tra i termini "vivere" e "sopravvivere".

Perché quello striscione che campeggiava sugli spalti dello stadio diceva la più grande, la più giusta e sacrosanta delle verità: "Chi tifa Roma non perde mai!". Mai. Ricordatevelo, ricordiamocelo. Ricordiamocelo quando vinciamo 3-0 con il Chelsea e quando perdiamo 7-1 con il Bayern Monaco. Perché quel detto secondo il quale non esiste sconfitta nel cuore di chi lotta va modificato, aggiustato: non esiste sconfitta per chi ama. Se ami hai vinto a prescindere, hai vinto in partenza e davvero non c'è altra cosa che conti o che abbia la benché minima importanza.

Andammo a Verona per quella "voglia di stringersi un po'" che fu la colonna sonora di quell'anno. E lo cantammo anche dopo la sconfitta contro la Samp, che "tutta la mia vita è giallorossa". C'è una ragione. C'è sempre stata, grazie al cielo. Andammo a Verona, partimmo alle quattro di mattina e cantammo e ridemmo e fumammo sigarette e mangiammo panini e parlammo. Ci stringemmo e ci abbracciammo, quindi imprecammo. Alcuni di noi piansero pure, ma era un pianto di commozione per tutto quello a cui aveva assistito, perché certe volte ti senti invadere da una tale ondata d'amore che piangere è l'unica cosa che puoi fare. Quindi cantammo di nuovo, tornammo alla macchina o in stazione e ripartimmo: qualcuno aveva ancora voglia di parlare, altri preferivano rivedere dentro i loro occhi quanto era appena accaduto. Cantammo ancora: "di giorno e sera, alza al cielo la bandiera".

Non andammo a Verona per vincere, non solo perlomeno. Andammo a Verona per amare. E ci riuscimmo, come sempre. Perché come scrisse qualcuno: «Il risultato del match, in fondo, è solo un'informazione per il pubblico. Chi ha il diritto di dire che hai perso, se tu senti di aver vinto? La vita è come una corsa podistica: l'unica cosa che conta, alla fine, è l'energia con cui hai coperto il tuo percorso». Noi, il 16 maggio 2010, il percorso che separa Verona da Roma lo coprimmo con tutta l'energia dei nostri cuori.

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