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Sankt Pauli, Amburgo: dove batte la bandiera dei pirati

La rinascita di una squadra e di un quartiere raccontata da Massimo Finizio, ex dirigente del club: "Così la società è radicata nel sociale: ora la imitano i grandi club"

02 Settembre 2018 - 18:31

Sankt Pauli: una squadra, un'associazione sportiva, un club, un'idea, un quartiere. Ma anche un'immagine: quella della bandiera pirata, lo stemma "alternativo" della società, che ha fatto il giro del mondo e che rappresenta l'identità di quella che è considerata la squadra ribelle più famosa del mondo. Addentrarsi in un universo così complicato, ma spesso stereotipato e semplificato, è difficile: per farlo c'è bisogno di una guida. Nel nostro caso sarà Massimo Finizio, oggi socio e collaboratore del club, in passato presidente dell'assemblea dei soci e primo dirigente italiano di un club di Bundesliga, che ci guida nel viaggio sulla nave pirata che ha cambiato il calcio tedesco. E che oggi è un modello seguito anche dai grandi club.

Massimo, innanzitutto la domanda più semplice: come hai conosciuto il Sankt Pauli?
«Negli Anni 80 frequentavo il mondo delle curve e avevo già dei rapporti con le tifoserie tedesche, poi nel 1985-86 sono nati i primi contatti con il Sankt Pauli. In quegli anni a Roma si iniziava a parlare di loro grazie soprattutto al lavoro di Valerio Marchi e della sua Libreria Internazionale a San Lorenzo: fu lui a spingermi ad andare ad Amburgo per conoscere meglio questa realtà. E lì, a inizio Anni 90, stava nascendo l'impostazione che le istituzioni sportive tedesche hanno copiato e dato a tutto il calcio nazionale».

L'ingresso delle squadre al Millerntor-Stadion, casa del Sankt Pauli

Ti riferisci al modo in cui sono strutturati i club tedeschi?
«Sì, sono associazioni in cui i soci si incontrano, si "menano" dal punto di vista dialettico e poi trasmettono le linee guida al direttivo, che viene eletto dall'assemblea. Ad esempio, il Sankt Pauli ha deciso di non avere sponsorizzazioni da parte di gruppi che costruiscono materiale bellico e di privilegiare aziende con una certa impostazione etica. Ma ciò che la Germania ha saputo valorizzare nel calcio è proprio l'impostazione associazionistica e solidale che caratterizza il Sankt Pauli».

Quando è nato tutto questo?
«Negli Anni 80 Sankt Pauli, il quartiere portuale di Amburgo, era disastrato. In quei tempi fu popolato da punk e alternativi di tutta la Germania e di tutta Europa. Si è calcolato che c'erano circa 15mila punk che occupavano gli edifici del quartiere: si stabilirono lì perché era una zona totalmente disabitata e le ridiedero vita con musica, centri sociali e palazzi occupati. Piano piano Sankt Pauli è risorto, diventando una vera e propria fucina culturale».

Ci suonarono anche i Beatles, un paio di decenni prima.
«Nel quartiere da sempre c'era una grande tradizione musicale: i Beatles, agli inizi, si esibirono lì molte volte, con il primo famosissimo live allo Star Club. Essendo il quartiere del porto, è sempre stato un centro di "divertimento", cioè di locali e prostituzione, ma anche un crocevia di culture e un polo di integrazione. Prima di loro a volte suonava Mino Reitano, che in Italia non si filava ancora nessuno. C'è anche un film, "I magliari", diretto da Francesco Rosi e girato nel 1959: è la storia di alcuni immigrati italiani, tra cui uno interpretato da Alberto Sordi, ambientato proprio per le vie di Sankt Pauli. Poi negli Anni 70 vennero David Bowie e Iggie Pop. E guarda caso ancora oggi c'è la regola che quindici minuti prima del fischio d'inizio allo stadio non ci può essere pubblicità ma solo musica, con "Hells bells" degli AC/DC che accompagna l'ingresso in campo delle due squadre.

Calcio e musica è un binomio che va sempre forte.
«La cultura musicale è anche cultura del territorio. Spesso si parla di quartiere a luci rosse, quartiere della musica… Ma il rapporto del Sankt Pauli con la città, con la Germania e con tutta Europa si regge su un doppio cordone ombelicale: l'associazionismo e la musica».

Tornando ai punk…
«A Sankt Pauli c'era lo stadio e quindi migliaia di loro si avvicinarono al club. La bandiera del Sankt Pauli è quella dei pirati, che fu portata proprio dai punk in quegli anni. Il quartiere è un porto e lo è sempre stato in età moderna, così come Amburgo è sempre stata una città aperta. Ancora adesso si chiama "Città libera ed anseatica di Amburgo". Dunque, negli Anni 80 la spinta creativa del punk incontrò quello che già era un club di calcio speciale in un quartiere speciale in una città speciale. Il risultato lo vediamo ancora oggi…».

Squadra e staff uniti nella campagna in favore dell'accoglienza dei rifugiati politici

Prima di questa rivoluzione era una squadra come le altre?
«Il Sankt Pauli è nato come associazione sportiva a tutto tondo, ma solo nel 1910 ha accolto il calcio tra le sue attività. Prima della rinascita del quartiere negli Anni 80, era comunque una squadra caratterizzata da una storia molto particolare. Nel periodo dell'ascesa del nazismo è stato attestato che la società ha sempre tentato di tenersene fuori e durante il regime ha coperto e salvato molti ebrei. Il Bayern Monaco adottò la svastica, il Sankt Pauli la rifiutò. Molti giocatori non alzavano il braccio al momento del saluto. Insomma, è sempre stata una squadra di sinistra in una città di sinistra, tant'è che qui è nata la cosiddetta socialdemocrazia».

Cosa intendi quando parli di associazionismo?
«Il Sankt Pauli ha 30mila soci, il Bayern 300mila. I bavaresi sono i primi nel calcio femminile, nella pallamano, nella pallacanestro, a freccette, nel calcio-balilla… Hanno più di venti divisioni sportive e moltissimi soci praticano lo sport. Da alcuni anni il Bayern si ispira al Sankt Pauli e capisce che coinvolgere soci porta liquidità, merchandising, rapporti. Negli ultimi tre-quattro anni non sanno più come fare a ingrandire l'Allianz Arena: come li metti 300mila soci dentro? Questo è l'associazionismo: sapere che un club di calcio è una comunità aperta dove non c'è solo una squadra da tifare, ma molte attività da svolgere, sia sportive, sia ricreative, sia gestionali. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le associazioni di ogni tipo hanno ricucito il tessuto sociale tedesco».

Quindi ogni socio può scegliere se essere un "socio-tifoso" o un "socio-atleta".
«I soci sono divisi in due gruppi, attivi e passivi. Gli attivi fanno attività sportiva in una delle decine di squadre delle varie discipline. La nazionale di rugby femminile tedesca ha praticamente quasi solo giocatrici del Sankt Pauli. Quelli di vela e del triathlon sono andati alle Olimpiadi. Il calcio è ciò che vedono tutti, ma le altre discipline sono una parte importantissima del club. Certo, tutto si può migliorare e tutti i soci vogliono la squadra in Bundesliga perché è lì che i valori e il messaggio del club ottengono un'eco maggiore».

Quanto c'è di politico in questa impostazione?
«Tanto, ma non tutto. Ci sono tifoserie di destra che si riconoscono in questo modello. Ci sono club turbo-capitalisti che lo difendono perché sanno che è ricchezza. E poi non bisogna pensare che il Sankt Pauli sia solo una squadra dove andare a sventolare la bandiera rossa. Per carità, è vero, ma spesso si sottovaluta il rapporto sociale col territorio. Ad esempio la società ha un rapporto molto stretto con le suore di Santa Maria Teresa di Calcutta e con la Comunità di Sant'Egidio. Di fronte alla curva del Sankt Pauli c'è la Casa di Betlemme che dà assistenza a disoccupati e senzatetto: ogni sei mesi gli mandano materiale tecnico e vestiti, tutta roba buona. E poi tutto il cibo che avanza dalle partite viene inviato lì. Questo è il rapporto del Sankt Pauli col territorio».

Dicono che il calcio tedesco stia cambiando. Ad esempio, è stata messa in discussione la regola del 50%+1.
«La grande maggioranza dei club di prima e seconda divisione ha appoggiato la mozione del Sankt Pauli per difendere la regola del 50%+1, cioè quella che mantiene i club in mano ai tifosi e non permette a nessun socio o azionista di possederne la maggioranza. E molte società sono in mano al 100% dei tifosi. Il Bayern Monaco ha una società per azioni tra gli azionisti, ma questa al massimo potrebbe arrivare al 49%. Il club deve rimanere attaccato alla sua terra e i dirigenti tedeschi sanno che questa è la loro ricchezza, così come i tifosi non sono disposti a cedere su questo punto. Gli stadi tedeschi sono sempre pieni e i numeri della loro seconda divisione competono con quelli della nostra Serie A».

Da qualche anno c'è la novità Red Bull che sembra uscire dagli schemi del modello tedesco.
«Il Red Bull Lipsia è riuscito ad andare oltre ogni fantasia. Lo statuto della Federazione tedesca dice che tutte le squadre devono essere aperte a tutti come associazioni sportive per aggregare nuovi soci. Le eccezioni sono il Bayer Leverkusen, legato al dopolavoro dell'azienda farmaceutica Bayer, e il Wolfsburg, che è il dopolavoro della Volkswagen. Poi ci sono anche l'Osnabrück in terza serie e un paio di altre squadre che sono legate alle associazioni cattoliche. La Red Bull si è inventata uno statuto in cui c'è scritto che si farà attività aggregativa... Ma la quota annuale supera i mille euro e nel momento in cui si avvicina un nuovo socio, gli otto soci fondatori possono dire sì o no. E dicono sempre di no, perché sono della Red Bull e vogliono fare come gli pare. Al momento la Lega non sa come fare e i tifosi di tutte le squadre tedesche sono arrabbiatissimi perché tutti tengono al movimento calcistico tedesco nella sua funzione aggregativa. Sanno che dietro c'è un discorso di profitto e commerciale».

Il calcio tedesco sta cambiando verso un modello in cui il tifoso conta meno e il capitale conta di più?
«Non credo. Sta cambiando, sì, ma certi cambiamenti non sono piaciuti ai tifosi e anche i dirigenti, come i "privilegi" di cui gode il Red Bull Lipsia ultimamente. Guardiamo i numeri del calcio tedesco: i bilanci in verde, gli stadi pieni, i risultati della nazionale… è un modello rispettoso dei tifosi e che al contempo produce enormi utili e mantiene in salute tutto il movimento. E in Italia che modello abbiamo?».

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